Succede ancora…a Torino

Scritto il 20 Dicembre 2006 in Amministrazione di Sostegno Dc-Interdizione e Inabilitazione

Ecco una sentenza che bisognerebbe leggere al contrario, partendo cioè dalla fine, dal dispositivo (“pronuncia l’interdizione per infermità di mente)”, apparendo del tutto verosimile che in quest’ordine sia stata confezionata, ovvero cercando – ad ogni costo- una giustificazione alla decisione precostituita di interdire.

E in effetti, le forzature interpretative e gli scollamenti tra questo e quel passaggio della motivazione sono tali e tanti che riesce difficile giustificarli con un mero (quanto improbabile) difetto di comprensione del nuovo sistema di protezione; maggiormente plausibile è che una simile motivazione sia stata abborracciata –appunto- per dotare il decisum di una impalcatura teorica apparentemente solida.

Questo, ad ogni buon conto, il percorso motivazionale seguito, che qui di seguito riproponiamo passo dopo passo:

 leggiamo a pag. 3: “lo stesso Giudice Costituzionale (sentenza citata), ha ribadito che l’individuazione  dello strumento della tutela in favore dell’inabile non possa essere lasciato, in assenza di chiari confini fra le diverse fattispecie, alla discrezionalità  dell’organo giurisdizionale, in una materia potenzialmente  lesiva della sfera di libertà e autodeterminazione dei singoli; ne sarebbero altrimenti compromessi i valori costituzionali fissati agli artt. 2,3, e 4 della Costituzione nonché violate ulteriori garanzie del pieno dispiegarsi della personalità”.

In realtà – va osservato – si tratta non del dictum della Consulta, quanto, invece, dell’argomento utilizzato dal giudice remittente a sostegno della  sollevata questione di legittimità, questione – valga rammentarlo – inesorabilmente rigettata dalla Corte, la quale ha, piuttosto, e al contrario, chiarito come spetti proprio  al giudice individuare l’istituto che garantisca la tutela più adeguata, limitando la capacità del soggetto nella minor misura possibile; potendo ricorrere all’interdizione solo se non ravvisi interventi di sostegno idonei ad assicurare tale protezione (ce lo ricorda la stessa Cassazione n. 13584, con testuale riferimento alla pronuncia della Corte Costituzionale);

a pag. 4: Nella sentenza della Cassazione n. 13584/2006 sono stati posti due principi di diritto: (…) il secondo, in base al quale l’ambito di applicazione dell’A.S. deve essere individuato con riguardo non soltanto  al diverso e meno intenso grado di  infermità o di impossibilità  di attendere i propri interessi ma piuttosto alla maggiore idoneità di tale strumento di adeguarsi alle esigenze del soggetto in relazione alla flessibilità del provvedimento ed alla maggiore  informalità della procedura.

Si faccia attenzione a quel “non soltanto”, che – inavvedutamente- ha preso il posto del “non già” contenuto nella sentenza del S.C. E si confronti il senso dei due periodi. Che dire, allora? Galeotto fu l’avverbio, dato che nella decisione piemontese l’intero periodo sta a significare che il presupposto (o comunque uno dei presupposti) di applicazione dell’AdS andrebbe individuato nel grado – meno intenso – di infermità o di impossibilità; con l’ effetto, allora (secondo tale tesi), di dover far ricorso all’ interdizione a fronte di un grado di infermità di una certa intensità.
Ben diverso, d’altra parte, il dictum della Cassazione, il cui fuoco è proprio rappresentato dall’avere spostato il baricentro della valutazione del giudice dalla condizione psico-fisica della persona, al ‘da farsi’ , al momento gestionale, all’attività.

Sempre a pag. 4: “Secondo la Corte potrà disporsi un’ amministrazione di sostegno a fronte di un’attività  minima estremamente semplice, vuoi per la scarsa consistenza  del patrimonio disponibile, vuoi per la semplicità delle operazioni da compiere (es. riscuotere la pensione) e per l’attitudine  del soggetto protetto a non porre in discussione i risultati dell’attività di sostegno  nei suoi confronti, e in definitiva, ove non sia necessaria una limitazione  generale della capacità del soggetto”.

Detto così, l’AdS diverrebbe una sorta di misura di protezione secondaria: se l’attività da compiersi è minima, semplice, elementare ben venga l’ amministrazione di sostegno; negli altri casi, però, spazio alle misure incapacitanti; una inversione di rotta, parrebbe, dunque, quella operata dalla Corte di legittimità; una rivitalizzazione dei vecchi istituti. Strano, però, che nessuno dei commentatori si sia espresso in tal senso.
Il fatto è che tale passaggio (che pur si legge nella pronuncia di legititmità) fa parte di un più ampio ragionamento, questo in sintesi:
(i) l’interdizione va esclusa tutte le volte in cui la protezione del soggetto abitualmente infermo di mente sia garantita dall’ AdS;
(ii) l’istituto dell’interdizione ha comunque carattere residuale, intendendo il legislatore riservarlo a quelle ipotesi in cui nessuna efficacia protettiva sortirebbe una diversa misura;
(iii) la scelta, da parte del giudice, deve tener conto del tipo di attività da compiersi in nome del beneficiario della protezione; laddove potrà farsi luogo all’interdizione ove si tratti di gestire un’attività di una certa complessità, o quando occorra impedire al soggetto di compiere atti per sé pregiudizievoli.

Proseguiamo, a pag. 5: “a prescindere dall’assenza di riferimenti all’infermità abituale nella definizione  dell’istituto dell’Amministrazione di sostegno di cui all’ art 404 cc ( che invero si riferisce a situazioni di mera impossibilità), è difficile immaginare l’operatività di tale strumento di protezione in presenza di una totale incapacità del destinatario ove, in capo a quest’ultimo, non residui alcuna autonomia e ogni atto debba essere gestito in regime di rappresentanza  integrale”.
Che dire al riguardo, se non che non dovrebbe più sfuggire, ad oltre tre anni dall’entrata in vigore della riforma, che il nuovo sistema di protezione dei soggetti deboli ruota attorno ad un nuovo baricentro, costituito dall’ inadeguatezza gestionale, ovvero dall’ impedimento sul piano organizzativo/funzionale a compiere le attività della vita quotidiana, piuttosto che dalla condizione di capacità/incapacità della persona.

A pag. 5 e 6: “Un provvedimento di ASO che autorizzi i pochi atti (ma tutti  per quel soggetto) necessari alla gestione patrimoniale (es. riscossione della pensione e pagamento della retta) pare in contrasto con l’interpretazione della Corte Costituzionale, perché si tradurrebbe in un’attribuzione in capo all’amministratore di poteri analoghi a quelli del tutore e, soprattutto, in una sostanziale “incapacitazione”  del destinatario, incidendo irreversibilmente sul suo status senza le garanzie  che il legislatore richiede per un intervento così radicale.
Qualora l’amministrato, in ipotesi totalmente compromesso, ponga in essere alcuni atti non esclusi dal provvedimento di A.S. (sul presupposto che non possano essere esclusi tutti gli atti come evidenziato dalla Corte Costituzionale), tali atti   dovranno essere ritenuti validamente compiuti ovvero sarà, al più applicabile, in luogo del regime di cui all’art 412 c.c. ( atti compiuti dall’amministrato in violazione delle disposizioni del Giudice Tutelare), la disciplina prevista per l’incapace naturale dall’art 428 c.c.”.

Ad onor del vero, la Corte Costituzionale non ha stabilito, ma semplicemente constatato, in considerazione della previsione contenuta nell’art. 411, u.c., c.c. che  i poteri dell’amministratore non coincidono integralmente con quelli del tutore; e, in effetti, spetta al g.t. modulare (anche variandola) l’estensione dei poteri dell’amministratore a seconda delle esigenze del caso concreto e del momento. Ma ciò non esclude la possibilità di un’ amministrazione di sostegno incapacitante, essendo ciò consentito proprio dalla previsione dell’art. 411 u.c. c.c. Il fatto è che si tratterà di incapacitazione funzionale, relativa cioè agli atti/operazioni da impedirsi nell’interesse del beneficiario, e non dell’incapacitazione nominale, svilente e ghettizzante indotta dall’interdizione.

 A rinforzare le stranezze argomentative vi è poi, nel provvedimento piemontese,  la rappresentazione (ben poco realistica, a dire il vero) del caso in cui l’amministratore di sostegno si sostituisca al beneficiario in una sia pur limitata serie di atti, i quali, tuttavia, rappresentino “tutti” gli atti riconducibili al medesimo; in tal caso – osserva il collegio- ci si troverebbe innanzi ad un’AdS equivalente all’interdizione, priva, peraltro, della garanzia della difesa tecnica (poiché affidata ad un giudice monocratico). Ma – domandiamo- quali situazioni di vita potrebbero immaginarsi, in cui la persona potrebbe condurre la propria esistenza quotidiana, e il proprio – per quanto modesto – progetto di vita, affidandosi ad alcuni, pochi atti ed operazioni? E se mai una tale fantasiosa situazione potesse immaginarsi, come pensare che la bastevolezza di quei pochi sparuti atti sarebbe stimabile una volta per tutte come sufficiente alla persona?
O non è vero, piuttosto, che una apposita disposizione, contenuta nell’art. 410 c.c., affida all’amministratore di sostegno il dovere di tener conto dei bisogni e delle aspirazioni della persona?

Nel seguito, il provvedimento assume l’impostazione e il taglio di una vera e propria apologia degli istituti moribondi: il ruolo, definito eccezionale, del tutore, rappresentato quale sorta di angelo custode dell’interdetto, dedito alla cura della sua persona, in primo luogo, mediante la predisposizione di un progetto personalizzato; la gestione patrimoniale come funzione di second’ordine; la relazione particolare che si instaurerebbe tra tutore e interdetto: il tutore – infine- come unico soggetto legittimato a prestare il consenso informato ad un trattamento sanitario. Un quadro che appare a dir poco bizzarro, se si considera – anche solo a tener conto dell’ultimo aspetto – che, a tale stregua, le tante persone disabili bisognose di un intervento medico, dovrebbero venire interdette, per poter essere curate.

Un accenno, infine, alla fattispecie qui decisa.
Una donna anziana – classe 1927- affetta da vasculopatia cerebrale cronica – con alcune – alcune, si badi – difficoltà di carattere mentale; e che, nonostante la patologia che l’affligge, risponde (questo leggiamo) in modo congruo alle domande relative alla propria persona, ricorda di percepire una pensione di 540,00 euro, e apparentemente interagisce; è ricoverata in una casa di cura, non risulta essere titolare di un patrimonio consistente, né si pone la necessità del compimento di attività particolarmente complesse, salvo – forse- la necessità di prestare il consenso per le cure farmacolgiche che la riguardano.
Interdizione: questo il verdetto, inesorabile, senza possibilità di scampo; eppure sorretto (si veda a pag. 11 del provvedimento) da una motivazione debole, sfuggente, come denota l’uso del condizionale: “non sarebbe” (dunque, non è certo che non sia) capace di garantirsi un’assistenza adeguata, né di individuare una collocazione adeguata (ma è ricoverata in una casa di cura), né di rilasciare un consenso informato.
Un elenco, in definitiva, del tutto astratto, quello delle attività, distanti dalla presa d’atto delle effettive esigenze della persona. Un giudizio sullo status, non sulle necessità di cura e di protezione, avulso totalmente dall’idea che il diritto possa costruirsi dal basso, e concentrato su una incomprensibile per quanto strenua volontà di difesa dei vecchi istituti.

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