Responsabilità del medico e della struttura ospedaliera: le facilitazioni nella prova

Scritto il 11 Gennaio 2008 in Dc-Danno non Patrimoniale

Non sono passati che pochi giorni dall’inizio del nuovo anno e già la Suprema Corte ci offre una sentenza di grande rilevanza in materia di responsabilità medica, tema ormai quotidianamente agli onori delle cronache. Le Sezioni Unite colgono così l’occasione per cristallizzare definitivamente una serie di principi nodali, sgombrando il campo da ulteriori contrasti.

Il caso: un paziente assume di avere contratto il virus dell’epatite C in conseguenza di trasfusioni di sangue infetto praticategli durante un intervento chirurgico effettuato presso una casa di cura privata; questa viene convenuta in giudizio per il risarcimento dei danni unitamente agli eredi del defunto medico che aveva materialmente eseguito l’operazione.

Le richieste del malato vengono però rigettate sia dal tribunale, sia nel successivo giudizio di appello in quanto, a detta dei giudici, l’attore non avrebbe adeguatamente dimostrato il nesso di causalità tra l’emotrasfusione e la successiva comparsa del virus. In altre parole, non v’era sufficiente certezza che l’epatite fosse comparsa proprio a seguito e per effetto delle trasfusioni imputate e non fosse, piuttosto, stata preesistente nel paziente, od originata da altre condotte in ogni caso non ascrivibili alla struttura sanitaria.

E veniamo alla posizione della Corte di legittimità:

I) I giudici di legittimità colgono in primo luogo l’occasione per fugare ogni dubbio in relazione alla natura della responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente, sancendo l’assoluta equivalenza di responsabilità tra strutture private ed ospedali pubblici. E’, insomma, irrilevante il “luogo terapeutico” in cui il paziente decida di sottoporsi a cura, essendo egli garantito in egual misura, sia cioè che si rivolga a strutture facenti parte del Servizio Sanitario Nazionale – anche convenzionate – o ad organizzazioni private, “senza possibilità di limitazioni di responsabilità o differenze risarcitorie” per l’una o l’altra. Ciò in virtù del fatto che le relative prestazioni – e possibili violazioni – incidono su un diritto di fondamentale importanza, ovvero il diritto alla salute, la cui tutela, com’è noto, discende direttamente dal dettato costituzionale (art. 32 Cost.) e merita, sottolinea la Corte, le più ampie garanzie.

II) Viene poi ribadita la natura contrattuale della responsabilità del medico e della struttura stessa (orientamento per la verità consolidatosi sin dalla fine degli anni ’90), con indubbi riflessi a favore del paziente, che avrà dunque dieci anni di tempo, a partire dalla conclusione del contratto ovvero dall’esecuzione della prestazione, per far valere i propri diritti in giudizio.

III) La Suprema Corte sancisce inoltre una tantum l’autonomia della responsabilità dell’ente rispetto all’accertamento della condotta dei singoli medici.

In tal modo, l’ente potrà subire una condanna al risarcimento anche laddove il danno non discenda direttamente da un errore materiale o da una condotta negligente del medico. A differenza di quanto accadeva in passato, quindi, colui il quale intenda richiedere un risarcimento alla struttura sanitaria, non dovrà necessariamente individuare uno specifico errore del medico-persona fisica, allorquando sussistano negligenze imputabili alla organizzazione – in senso lato – della struttura sanitaria.

A tal proposito, viene altresì definitivamente rilevata la complessità e molteplicità degli obblighi ricadenti sulla struttura sanitaria, che vanno ben al di là della semplice prestazione di servizi “alberghieri” e comprendono anche “la messa a disposizione di personale medico ausiliario, paramedico, l’apprestamento di medicinali e di tutte le attrezzature necessarie anche per eventuali complicazioni”, dando vita ad una prestazione assai articolata, pur se genericamente definita “di assistenza sanitaria”.

IV) Ancora, la sentenza n. 577/2008 rappresenta un’occasione per regolare la tematica relativa all’onere della prova e sgombrare il campo da eventuali dubbi residui, stabilendo “chi debba provare cosa”.

I giudici statuiscono quindi che al paziente basterà provare l’avvenuto contratto – o il “contatto sociale”- con la struttura sanitaria, (ad esempio, tramite il certificato di pronto soccorso o la produzione cartella clinica) e l’aggravamento della patologia preesistente o la comparsa di una malattia, allegando, anche per sommi capi, l’inadempimento della condotta del medico (e/o della struttura) astrattamente idonea a provocare il danno.

L’onere probatorio più consistente graverà proprio sul medico e sulla struttura sanitaria, i quali dovranno dimostrare di avere adempiuto ai propri obblighi oppure, in caso di inadempimento acclarato, provare che la colpevole condotta non abbia inciso causalmente sul verificarsi del danno.

Ciò anche sulla base del fatto che il medico e la struttura sanitaria sono soggetti per i quali è effettivamente più agevole dimostrare l’adempimento, in quanto aventi la padronanza “tecnica” e gli strumenti necessari per smontare i rilievi avversari (principio della cd. “vicinanza della prova”).

Al contrario, il singolo paziente non è tenuto a dilungarsi nell’illustrare minuziosamente i possibili errori od omissioni avversari (“specifici e peculiari aspetti tecnici di responsabilità professionale”, si legge in Cass. Civ., sez. III, 19 maggio 2004, n. 947), tanto più se si considera (come in effetti accorta giurisprudenza ha rilevato: ex plurimis Cass. Civ., sez. III, 21 giugno 2004, n. 11488, ma anche Cass. Civ. sez. III, 9 novembre 2006, n. 23918, Cass. Civ. sez. III, 28 maggio 2004, n. 10297, Cass. Civ. sez. III, 21 luglio 2003, n. 11316) che le tematiche in questione implicano una serie di argomentazioni e terminologie spesso estranee al background culturale del paziente medio.La sentenza delle Sezioni Unite aggiunge, in tal modo, un altro tassello a conferma e presidio del favor per il paziente, così stabilendo un ulteriore alleggerimento della posizione processuale del medesimo.

Vi è da dire che tale atteggiamento è dettato dall’esigenza di tradurre in concreto il disposto costituzionale che, in alcuni casi (di recente, v. le vicende dell’ospedale di Vibo Valentia), rischia di restare lettera morta, ciò tanto più se si considerano i progressi raggiunti oggi dalla comunità medico scientifica.

Ne deriva che, pur senza sconfinare nella categoria dei punitive damages, attualmente non ammessi nel nostro ordinamento, la giurisprudenza tenderà sempre più a colpire condotte non conformi alle regole dell’arte medica, semplificando, da un lato, gli oneri del paziente e, dall’altro, trasformando la prova a carico del medico e/o della struttura sanitaria in una probatio diabolica.Grazie alla decisione delle Sezioni Unite il paziente/ricorrente, all’esito del giudizio reso alla luce dei principi di diritto sopraenunciati, potrà, pertanto, ragionevolmente attendersi un percorso semplificato sulla via della tutela risarcitoria.