Non importa essere infermi abituali di mente per venire interdetti

Scritto il 17 Ottobre 2010 in Amministrazione di Sostegno

Quella indicata nel titolo non è una novità rivoluzionaria introdotta nell’ordinamento da un legislatore impazzito o fascista; è, invece, la novità che ho appreso, con incredulità mista a stordimento, leggendo una sentenza bolognese del marzo 2009.

Un giovane viene interdetto nonostante il CTU (esimio psichiatra bolognese) avesse dichiaratamente concluso che la sua malattia non configura propriamente lo stato di abituale infermità di mente.
La condizione del giovane era, infatti, caratterizzata (sempre secondo l’accurata descrizione del perito) da alterne vicende di parziale consapevolezza di malattia con  adesione alle cure e crisi che richiedevano, invece, drastici costrittivi: YY – osservava il perito – “è anche persona capace di sanità, intelligenza, cultura, oculatezza negli intervalli di relativo benessere”.
Il collegio bolognese si dibatte lungamente nella ricerca di argomenti atti a vanificare quelle conclusioni, e giudica la valutazione del consulente apodittica, immotivata, non supportata da validi argomenti medico-legali. E dato che – taglia corto l’estensore – nei tre anni successivi alla perizia si è verificata un peggioramento, non può che concludersi per una psicopatologia di natura abituale con il via libera conseguente all’interdizione.

 

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Ebbene:

  • sette delle otto pagine di motivazione si dilungano sulla descrizione della condizione clinica dell’interdicendo, e sull’evoluzione peggiorativa di essa. Un giudizio, dunque, tutto centrato sulla condizione di incapacità; tutt’un altro registro rispetto al baricentro su cui dovrebbe ruotare oggigiorno la scelta di una misura di protezione; baricentro costituito (serve forse ricordarlo) dalla mancanza di autonomia gestionale. Non conta quanto sta male la persona, conta piuttosto ciò che la persona non è in grado di fare (lo dice la Cassazione);
  • il presupposto della infermità abituale di mente (che è imprescindibile per poter interdire una persona) è stato ritenuto sussistere in totale spregio delle valutazioni compiute dal CTU, peraltro psichiatra di chiara fama; e nonostante, poi, egli avesse ribadito le proprie conclusioni anche in sede di chiarimenti cui era stato chiamato dal giudice;
  • a tre anni di distanza, e di fronte all’incertezza, si sarebbe potuto, si sarebbe anzi dovuto procedere ad un supplemento peritale (mese più, mese meno…) e non concludere per l’infermità abituale senza un supporto scientifico al riguardo;
  • osserva il collegio che la situazione del momento in cui venne espletata la CTU era profondamente diversa da quella attuale, dato che YY viveva ancora in casa propria, e le condizioni di salute erano migliori, non era stato ancora inserito in struttura. Il passaggio è paradossale: il peggioramento dunque si sarebbe verificato dopo “l’internamento”; mentre, come vedremo, l’interdizione viene pronunciata proprio per decidere il luogo di cura, per protrarre cioè la collocazione in struttura.
  • Il Collegio invoca, a sostegno, Cassazione n. 13584 del 2006, mettendole in bocca però cose non dette: la Cassazione, infatti, ha affermato che l’amministrazione di sostegno è la star del sistema, mentre l’interdizione è del tutto residuale e si potrebbe giustificare, tutt’al più, quando vi siano patrimoni ingenti da amministrare o attività molto complesse da espletare. Non ha detto la Cassazione ciò che le si vuole far dire, ovverossia che l’inadeguatezza dell’ Ads emergerebbe in due casi: quando il patrimonio è cospicuo, o quando occorre scegliere la struttura in cui deve essere ricoverata la persona (anzi quest’ultima cosa non viene neppure accennata!).
  • Si legge ancora nella sentenza che i medici avrebbero detto che YY va protetto in maniera forte. E dai (si dice da queste parti): cosa sarebbe la protezione forte? L’interdizione è forte sì, perché annienta la dignità della persona, anzi annienta la persona stessa, che rimane a far parte di questo mondo come un relitto, come una carcassa.
  • L’interdizione proteggerebbe di più – ecco un altro passaggio su cui occorre riflettere – allorquando si tratti di decidere il luogo di cura e di vita della persona, dato che tale scelta può essere rimessa al solo tutore, e non anche all’amministratore di sostegno. E perché mai questa differenziazione? Risponde il collegio bolognese: perché la disciplina sull’ads non richiama l’art. 371 c.c., mentre se si applicasse analogicamente la disposizione si violerebbe la libertà della persona, in contrasto con l’art. 13 Costituzione. Formalmente il ragionamento non fa una piega: peccato, però, che la libertà della persona è già andata a farsi benedire con la pronuncia di interdizione; peccato poi che lo sventurato non avrà alcuna voce in capitolo sulla scelta, dato che il tutore non si preoccuperà certo di ascoltarlo, ma si limiterà a firmare delle carte, impassibile e distante. Peccato che l’art. 13 Costituzione è norma destinata ai vivi.