In un quadro composito di regole che si muovono in direzioni opposte, è proprio il caso di chiedersi se, oggigiorno, sia meglio il matrimonio o la convivenza.
Nel 2016 è stata varata la legge sulle unioni civili e convivenze, una legge che ha fatto parlare di sè soprattutto per l’innovazione costituita dalla regolamentazione (per la prima volta nella storia dell’ordinamento italiano) delle unioni tra persone omosessuali.
E’ la legge Cirinnà, la quale – oltre a sdoganare il “matrimonio gay”, regolamenta la convivenza di fatto, l’unione cioè tra persone eterosessuali che, pur stabile, non si fonda sul vincolo matrimoniale.
Questa parte della Novella ha fatto meno scalpore e forse è rimasta più sullo sfondo. Eppure, a ben guardare, vi si scopre una portata rivoluzionaria, tale da sconvolgere (potenzialmente) lo stesso istituto del matrimonio.
Per essere precisi, quanto sopra dipende dal convergere di due novità: da una parte la legge sulle convivenze, dall’altra la ‘stretta’ che la Cassazione ha inteso dare all’assegno di divorzio.
Di questa seconda novità ho detto in più occasioni, ma qui vorrei parlare degli effetti che si può immaginare deriveranno dalla combinazione delle due novità, quella legislativa e quella giurisprudenziale. Mi spiego meglio.
Secondo quanto stabilito dalla Cassazione, l’assegno di divorzio non spetta più nel caso in cui il coniuge richiedente abbia una propria autonomia economica, quand’anche le proprie risorse non siano tali da garantirgli la conservazione del precedente tenore di vita (quello goduto nel matrimonio).
Il coniuge più debole economicamente, dunque, continuerà a ricevere un assegno per il proprio mantenimento da parte dell’altro fino al divorzio, dopodichè dovrà di fatto arrangiarsi.
Ovviamente, quella qui esposta è la sintesi estremizzata del principio di autoresponsabilità sancito dalla Corte Suprema; ogni situaizone richiederà, comunque, un’attenta ed approfondita valutazione.
Quello che è certo, comunque, è che il coniuge meno abbiente potrebbe non avere alcun diritto all’assegno di divorzio se svolga una qualsivoglia attività lavorativa oppure se possieda un immobile o risparmi dai quali trae un reddito.
Il nuovo orientamento della Cassazione disegna, come si vede, un nuovo ordine sociale post divorzio, fatto di persone singole, ciascuna responsabile del proprio destino economico.
Quali, allora, le possibili forme di tutela?
C’è chi scommette che sempre più donne, mogli di imprenditori o professionisti abbienti, non si faranno trovare impreparate, e che opteranno “tatticamente” per lo stato di disoccupazione a vita, fin dal momento della separazione.
Lasciamo questi pronostici ai sociologi e volgiamo lo sguardo alla legge sulla convivenza.
Essa prevede la possibilità che due partners stipulino tra loro un contratto di convivenza, con il quale regolare i reciproci rapporti patrimoniali e le modalità di contribuzione di ciascuno ai bisogni della famiglia.
Si tratta di un contratto vero e proprio, sottoposto sì a determinate regole formali per la costituzione e lo scioglimento, ma non astretto a limitazioni di contenuto. Il solo limite è dato dal divieto di sottoporrre questi contratti a termine o a condizione.
Si tratta, in definitiva, di contratto che – come ogni contratto – è affidato alla libertà negoziale delle parti.
Per tale ragione, esso potrà altresì contenere previsioni relative ai rapporti patrimoniali tra i partners da valere per il caso di rottura.
Ciò trova conferma nella medesima legge Cirinnà, la quale prevede che il contratto di convivenza “si risolve per accordo delle parti” (oltrechè per recesso unilaterale).
Convivenza: sì ai contratti per regolamentare i futuri rapporti patrimoniali
Nulla, dunque, sembra impedire che i partners includano nel contratto di convivenza la previsione di come verranno regolamentati tra loro i reciproci rapporti patrimoniali, nel momento eventuale della fine della convivenza. Certo, dovranno essere rispettati determinati limiti, quali l’ordine pubblico e il rispetto per la dignità e la libertà del partner; per tale via, le parti potranno dunque prevedere, ad esempio, che nel momento della fine della convivenza, il comune patrimonio verrà suddiviso in quote, oppure che il partner più ricco elargirà all’altro una somma di denaro e così via.
Vediamo così che i cd. prenuptial agreements, non ammessi ancora oggi nel matrimonio, hanno fatto ingresso in pratica nelle convivenze.
Il nuovo assetto normativo potrebbe, dunque, condurre alle più opportune riflessioni sul da farsi nella scelta tra un matrimonio sempre meno solidale ed una convivenza -oggi più di ieri- garantista.