Il sig. Caio, agente scelto del Corpo di polizia penitenziaria in servizio presso la Casa Circondariale “N.C.” di Civitavecchia, chiede, innanzi tutto, l’accertamento della mancata adozione – da parte del Ministero della Giustizia – delle misure necessarie per la tutela delle condizioni di lavoro presso la predetta Casa Circondariale con specifico riferimento all’esposizione ai fumi passivi derivanti da combustione di tabacco e la conseguente condanna del Ministero stesso ad adottare tutte le misure a tal fine prescritte dalla normativa vigente.
Il Tar ritiene la domanda è fondata e al fine di accertare la sussistenza del diritto per la cui tutela agisce il ricorrente ritiene necessario operare una ricognizione del quadro normativo vigente all’epoca dei fatti cui si riferisce la domanda.
[…]Con la sentenza n. 399 del 20/12/96, infatti, la Consulta si è pronunciata, in riferimento agli artt. 3 e 32 della Costituzione, sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Torino ed avente ad oggetto gli artt. 1, lettera a) l. n. 584/75 (Divieto di fumare in determinati locali e su mezzi di trasporto pubblico), 9 e 14 del d.P.R. 19 marzo 1956, n. 303 (Norme generali per l’igiene del lavoro), così come modificati dall’art. 33 del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, nonché 64, lettera b) e 65, comma 2, del citato decreto n. 626 del 1994, nella parte in cui non prevedevano il divieto di fumare nei luoghi di lavoro chiusi.
Nell’occasione la Corte, dopo avere precisato che, secondo la sua costante giurisprudenza (sentenze n. 218 del 1994, n. 202 del 1991, nn. 307 e 455 del 1990, n. 559 del 1987 e n. 184 del 1986), la salute è un bene primario che assurge a diritto fondamentale della persona ed impone piena ed esaustiva tutela, tanto da operare sia in ambito pubblicistico che nei rapporti di diritto privato, ha rilevato che la tutela della salute riguarda la generale e comune pretesa dell’individuo a condizioni di vita, di ambiente e di lavoro che non pongano a rischio questo suo bene essenziale ed implica non solo situazioni attive di pretesa, ma anche – oltre che misure di prevenzione – il dovere di non ledere né porre a rischio con il proprio comportamento la salute altrui. […]
Secondo la Corte, pertanto, già sulla base delle disposizioni richiamate, di natura non solo programmatica ma precettiva, il datore di lavoro deve attivarsi per verificare che in concreto la salute dei lavoratori sia adeguatamente tutelata e per adottare le misure organizzative sufficienti a conseguire il fine della protezione dal fumo passivo in modo conforme al principio costituzionale dell’art. 32 di talchè la tutela preventiva dei non fumatori nei luoghi di lavoro può ritenersi soddisfatta quando, mediante una serie di misure adottate secondo le diverse circostanze, il rischio derivante dal fumo passivo, se non eliminato, sia ridotto ad una soglia talmente bassa da far ragionevolmente escludere che la loro salute sia messa a repentaglio (Corte Cost. n. 399/96).
[…] L’obbligo di tutela del lavoratore contro i rischi da fumo passivo sul posto di lavoro è stato, poi, ribadito dall’art. 51 della legge n. 3/03 che ha imposto il divieto generale di fumo nei locali chiusi ad eccezione di quelli privati non aperti ad utenti o al pubblico e a quelli riservati ai fumatori dotati di impianti per la ventilazione ed il ricambio di aria regolarmente funzionanti.
Tale disciplina è applicabile a partire dal 10 gennaio 2005 (per effetto del differimento dell’entrata in vigore della norma disposto dall’art. 19 d.l. n. 266/04) a tutte le amministrazioni dello Stato e, quindi, anche al Ministero della Giustizia. […]
Circa il merito della pretesa azionata il Tribunale rileva che il ricorrente (pag. 10 dell’atto introduttivo) ha richiesto, innanzi tutto, il risarcimento per la lesione del diritto alla salute; tale danno, però, non può essere riconosciuto non avendo il Filoni offerto prova idonea dell’esistenza di una menomazione fisio-psichica giuridicamente apprezzabile e ciò nonostante ne avesse l’onere secondo i principi che, ai sensi dell’art. 2697 c.c., regolano la materia.
Deve, invece, essere accolta la domanda di risarcimento per il “danno non patrimoniale” identificato dal ricorrente (pag. 10 dell’atto introduttivo) “nella privazione della propria serenità e tranquillità” derivante dall’avere lavorato in un ambiente non salubre.
In ordine alla risarcibilità di tale voce di danno deve richiamarsi il recente orientamento della Suprema Corte che con la sentenza n. 26972/08, resa a Sezioni Unite, ha evidenziato che il danno non patrimoniale previsto dall’art. 2059 c.c. “si identifica con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica” e non è tutelato solo nei casi espressamente previsti dalla legge ma, “in virtù del principio della tutela minima risarcitoria spettante ai diritti costituzionali inviolabili, la tutela è estesa ai casi di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione”.
Tale danno non patrimoniale, sempre secondo la citata sentenza delle Sezioni Unite (confermata in prosieguo dalla sentenza della Cass. SS.UU. n. 3677/09), sussiste anche in riferimento alle violazioni di obblighi contrattuali nell’ambito del rapporto di lavoro e, in particolare, in relazione alla violazione dell’obbligo dell’imprenditore di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore (art. 2087 c.c.) in quanto vengono in rilievo diritti della persona del lavoratore che, già tutelati dal codice del 1942, sono assurti in virtù della Costituzione, grazie all’art. 32 Cost., quanto alla tutela dell’integrità fisica, ed agli artt. 1, 2, 4 e 35 Cost., quanto alla tutela della dignità personale del lavoratore, a diritti inviolabili: “si verte, in sostanza, in una ipotesi di risarcimento di danni non patrimoniali in ambito contrattuale legislativamente prevista” (Cass. SS.UU. n. 26972/08).
Proprio il riferimento agli artt. 1, 2, 4, 32 e 35 Cost. induce il Tribunale a ritenere che il diritto ad un ambiente di lavoro salubre sia costituzionalmente garantito e, come tale, risarcibile quale danno non patrimoniale subito dal dipendente che abbia visto tale diritto illegittimamente compromesso a prescindere da ogni effetto sul diritto alla salute.
Accertata l’esistenza della posizione giuridica soggettiva legittimante la domanda risarcitoria e della violazione dell’obbligo contrattuale – gravante sul datore – di adottare misure idonee a prevenire il rischio dell’esposizione da fumo dei lavoratori, il Tribunale ritiene che la conseguente liquidazione del danno debba essere effettuata in via equitativa ex art. 1226 c.c. tenendo conto non solo della natura del diritto leso ma anche della durata di tale lesione (che nella fattispecie si è protratta negli anni) e della gravità della stessa (anche per l’interferenza con il diritto alla salute). […]
Il testo della sentenza è tratto da personaedanno.it