Le sezioni unite n.26972/2008: cose che vanno, cose che non vanno

Scritto il 17 Novembre 2008 in Dc-Danno non Patrimoniale

Non c’è alcun dubbio sul fatto che la pronuncia delle Sezioni Unite fosse grandemente attesa, presso i tortmen di varia appartenenza, quale decisione chiamata a segnare il destino futuro del danno esistenziale. E l’attesa era tanta che, non appena pubblicata la sentenza, tutti (immagino) saranno andati dritto dritto alla conclusione: a pag. 38, una conclusione secca ed apparentemente categorica:

“…non può farsi riferimento ad una generica sottocategoria denominata ‘danno esistenziale’ …Le considerazioni svolte valgono a dare risposta negativa a tutti i quesiti, in quanto postulanti la sussistenza dell’autonoma categoria del danno esistenziale”.

Una conclusione che – presa così – non lascia certo spazio a letture possibiliste; difficile immaginare vie d’uscita a tanta chiusura.
Eppure – come insegna un amico magistrato – le sentenze vanno sempre lette dalla prima all’ultima riga.
Ecco, allora, ciò che in questa sentenza ‘non va’ e – d’altra parte – i profili che meritano di essere valorizzati.

 

Sull’ingiustizia. Non molte – oserei dire- sono le novità su tale versante, come comprova la riconferma esplicita dei principi sanciti nel 2003.
Viene ripresa e riaffermata, infatti, la risarcibilità di tutti i pregiudizi conseguenti alla lesione di una prerogativa della persona, meritevole di protezione, vuoi (i) in quanto individuata dalla legge, vuoi (ii) in quanto riconosciuta inviolabile dalla Costituzione.
Quanto al rischio di riconduzione degli interessi presidiabili a quelli soli tipizzati nella Carta, non credo che si tratti di un timore fondato. E a questo riguardo rassicurano le stesse Sezioni Unite, là dove ( a pag. 16) chiariscono che la selezione degli interessi da presidiare è affidata, in via di interpretazione, al giudice; questi è “chiamato ad individuare la sussistenza, alla stregua della Costituzione, di uno specifico diritto inviolabile della persona (…)”; e, nondimeno, il giudice non potrà prescindere dagli artt. 2 e 3 della Carta, dal cui bacino (come fin qui ha mostrato la giurisprudenza) sono enucleabili, in un continuo work in progress, figure emergenti di diritti meritevoli di salvaguardia.
E’ quanto si trova ribadito, del resto, nella pronuncia:

Il catalogo dei casi in tal modo determinati non costituisce numero chiuso. La tutela non è ristretta ai casi di diritti inviolabili della persona espressamente riconosciuti dalla Costituzione nel presente momento storico, ma, in virtù, dell’apertura dell’art. 2 Cost. ad un processo evolutivo, deve ritenersi consentito all’interprete rinvenire nel complessivo sistema costituzionale indici che siano idonei a valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano, non genericamente rilevanti per l’ordinamento, ma di rango costituzionale attenendo a posizioni inviolabili della persona umana”.

Collocherei, allora, questa prima parte della pronuncia tra ciò che va – tutto sommato.

Sul danno esistenziale. Venendo al nodo centrale del discorso, non siamo certo di fronte ad un bollettino della vittoria, per quanto riguarda il riconoscimento di autonomia alla figura del danno esistenziale. Del resto – a voler essere realistici – i rischi paventati, in merito all’eventualità di un lasciapassare troppo spinto, erano destinati ad avere la meglio (in un momento storico, come questo – poi- in cui le “vacche magre” minacciano di interessare le stesse banche e le assicurazioni).
Resta il fatto, però, che il principio del risarcimento pieno alla persona viene ribadito e consacrato: profilo, anche questo, da annoverare tra le “cose che vanno”.
Si vada alla pag. 47: “Il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio”.
Vi è poi – sempre a questo proposito – nella pronuncia, un ulteriore passaggio che merita di non passare inosservato. Si tratta del riferimento ad una recente sentenza (della III Sezione, pres. Preden, rel. Segreto), n. 25157/2008; pronuncia del 14 ottobre 2008, ma strettamente intrecciata con questa (pur successiva) delle S.U., tanto da contenervi un richiamo. Ebbene, vi si legge:

“Nel bipolarismo risarcitorio (danni patrimoniali e danni non patrimoniali) previsto dalla legge, al di là della questione puramente nominalistica, non è possibile creare nuove categorie di danni, ma solo adottare per chiarezza del percorso liquidatorio, profili di danno, con contenuto descrittivo, tenendo conto che da una parte deve essere liquidato tutto il danno, non lasciando privi di risarcimento profili di detto danno (…) (in questi termini recentemente si sono espresse le S.U. di questa Corte……….)”.

Questo, dunque, il dato certo ed inoppugnabile: ai fini liquidatori resta valido il riferimento ai diversi (e, dunque, a tutti i) profili di pregiudizio, al fine di garantire il risarcimento integrale.
Non è allora il De profundis del danno esistenziale, quanto – piuttosto – una riscrittura, in chiave contenitiva (onde evitare la dilatazione del quantum risarcibile, o, meglio, per limitare eventuali duplicazioni risarcitorie), dell’intera categoria del danno non patrimoniale. E le vittime votate al sacrificio – sempre sul piano della disconosciuta dignità ontologica quali categorie autonome – sono anche altre (v. il danno morale soggettivo).
Non vedrei, allora, e credo non possa vedersi un verdetto così negativo, quanto al danno esistenziale; il quale, per quanto non considerato categoria autonoma, continuerà a rappresentare voce dell’unitario danno non patrimoniale; una presenza cioè di cui tener debito conto sul piano risarcitorio.
Valga ancora notare come molteplici siano i riferimenti a tale voce di pregiudizio, della cui esistenza nella realtà fenomenica le S.U. mostrano di essere consapevoli.
In estrema sintesi e senza pretese di esaustività, bastino i seguenti richiami:
– a pag. 27: “anche il pregiudizio non patrimoniale consistente nel non poter fare (…) è risarcibile”. Non è forse il ‘non poter fare’, appunto, ovverosia, la ricaduta dell’evento lesivo sulla sfera dinamica della persona, l’ in sé del danno esistenziale, quale sempre indicato in dottrina ed in giurisprudenza ?
– a pag. 29: “altri pregiudizi di tipo esistenziale attinenti alla sfera relazionale della persona, ma non conseguenti a lesione psicofisica, e quindi non rientranti nell’ambito del danno biologico (…) saranno risarcibili purchè siano conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona diverso dal diritto all’integrità psicofisica“. Bene, non è questo forse il danno esistenziale denominato (in dottrina) puro, intendo dire la parte più cristallina della voce ?
– ancora, a pag. 44: “si parla, nella giurisprudenza di questa Corte (sent. N. 6572/2006) di danno esistenziale. Definizione che ha valenza prevalentemente nominalistica, poiché i danni-conseguenza non patrimoniali che vengono in considerazione altro non sono che pregiudizi attinenti allo svolgimento della vita professionale del lavoratore, e quindi danni di tipo esistenziale (…)” . Altro non sono – così si esprimono le S.U. – che danni di tipo esistenziale. E’ dunque inutile tentare di obliterare ciò che nella realtà riaffiora e trabocca, imponendosi all’evidenza.
– e (per concludere questa rapida carrellata) a pag. 49: “Possono costituire solo “voci” del danno biologico nel suo aspetto dinamico, nel quale, per consolidata opinione, è ormai assorbito il c.d. danno alla vita di relazione, i pregiudizi di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita, conseguenti a lesioni dell’integrità psico-fisica (…)”. Un passaggio, questo, che non abbisogna di chiarimenti, tanto è esplicito nell’agganciare il pregiudizio di natura relazionale alla categoria (rectius, alla voce) del danno esistenziale.

Sul danno morale soggettivo e sul danno psichico. Pare proprio – lo si legge già nei primissimi commenti alla sentenza – che il vero protagonista, in negativo, sia il danno morale soggettivo, il quale, pur presente ab immemorabile sulla scena aquiliana, si è visto qui soccombere nella propria autonomia ontologica, al cospetto dell’unitarietà del danno non patrimoniale.
Non mi pare – però – che siffatta conclusione possa considerarsi del tutto corretta.
E’ vero che le S.U. affermano a chiare lettere, ed in modo inequivocabile (v., in particolare, a pag. 17 e 47) che il danno morale soggettivo deve dirsi definitivamente accantonato come autonoma categoria di danno.
Del danno morale soggettivo si dice, però – nella sentenza – che esso consiste in un tipo di pregiudizio, quello, per l’esattezza, rappresentato dalla “sofferenza morale soggettiva in sé considerata”.
Allorché, invece, la vittima lamenti degenerazioni patologiche della sofferenza interiore, si rientra nell’area del danno biologico, la cui valutazione dovrà essere corrispondentemente personalizzata.
Emergono, così, due tipologie di sofferenza interiore: – l’una si identifica nel moto interiore dell’animo, nella reazione di esso di fronte al torto (rabbia, dolore, tristezza, pianto) ed è il danno morale soggettivo vero e proprio; l’altra che si registra allorchè la prima componente sia di intensità tale da sfociare in una vera e propria degenerazione patologica; che altro non è – aggiungerei e lo si coglie dalla sentenza – se non il danno psichico. Quest’ultimo, data la sua consistenza, merita di essere inglobato nell’area del danno biologico, con ogni consequenziale e doverosa personalizzazione.
Il danno morale, dunque, deve considerarsi morto? Direi di no, guardando alla sostanza delle cose.
Ciò che conta è che alla vittima dell’illecito continui ad essere garantita risposta riparatoria per ogni tipo di pregiudizio in concreto risentito. E vengono allora in considerazione i criteri liquidativi additati dalle S.U.

Sul ‘no’ alle duplicazioni risarcitorie. Per quanto la preoccupazione di evitare il rischio di duplicazioni risarcitorie appaia francamente eccessiva (il supremo organo sembra quasi non fidarsi della capacità dei magistrati di saper trovare il giusto punto di equilibrio), deve comunque condividersi il no, ripetuto a più riprese in modo stentoreo, ad ogni fuga in avanti sul piano liquidatorio.
Su tale motivo si erano soffermati, del resto, gli stessi esistenzialisti; i quali – per altro verso – non avevano mancato di stigmatizzare certe pronunce (specie di taluni giudici di pace) che – seppure da apprezzare negli intenti – rischiavano di prestare il fianco ad attese (e non mancate) strumentalizzazioni da parte degli oppositori della neo-voce.

Sui criteri liquidativi e sulla personalizzazione. Qual è, allora – nella nuova impostazione unitaria additata dalle S.U. – lo spazio riservato, sul piano liquidatorio, alle voci di pregiudizio degradate (dal punto di vista nominale) ?
Come è facile constatare, la parte del leone è riservata al danno biologico (cui, peraltro – si legge nella sentenza – sarebbe spettata la medesima sorte, se non fosse che esso è stato consacrato dal legislatore); al danno biologico è attribuita la capacità di ricomprendere (con il corredo di una contabilizzazione riferita alle pieghe ripercussionali concretamente determinatesi), il pregiudizio morale e quello esistenziale:
(i) il primo se ed in quanto venga allegato e riscontrato quale degenerazione patologica della sofferenza, ovverosia sofferenza di natura psichica:

ove siano dedotte siffatte conseguenze, si rientra nell’area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente (…) dovrà il giudice, qualora si avvalga delle note tabelle, procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza”;

(ii) il secondo (pregiudizio esistenziale) andando a comporre e a riempire la casella del biologico dinamico. In altri termini; allorchè l’evento lesivo produca conseguenze pregiudizievoli sia sull’integrità psico-fisica, sia ancora sulla sfera dinamica della persona, la voce di danno da liquidarsi sarà, pur sempre, quella biologica ma con una personalizzazione doverosa, tale da coprire entrambe le faglie sofferenziali (quella biologica statica e quella biologica dinamica, ovverosia esistenziale).

Sul ‘peccato originale’ della pronuncia. I conti non tornano, però, e vedrei in questa parte la più vistosa incoerenza/dimenticanza (dimenticanza?) delle S.U. riguardo al pregiudizio di natura relazionale-esistenziale non discendente dalla compromissione dell’integrità psico-fisica.
Mentre, infatti, siffatta situazione viene contemplata a proposito del danno morale, ove (a pag. 48) si riconosce l’autonoma risarcibilità della sofferenza soggettiva in sé e per sé considerata (la quale cioè non sfoci in una degenerazione a rilievo clinico), si sorvola a piè pari sull’ ipotesi del pregiudizio alla sfera dinamica che tragga origine dalla lesione di una valore della persona di rango costituzionale diverso dal bene salute.
Un esempio servirà a chiarire.
Il caso – arcinoto – è quello della figlia trascurata dal padre, caso deciso qualche anno fa dal tribunale di Venezia. Quella giovane figlia non aveva riportato alcun riflesso biologico dalla trascuratezza paterna; la quale, però, aveva calpestato i suoi diritti di figlia (diritti, non c’è da dubitarne, di rango costituzionale e facenti capo, propriamente, all’art. 30 Cost.). Non sarebbe stato risarcibile, in quel caso, il danno biologico, così come correttamente ritenuto dal collegio. Meritavano, però, considerazione e riparazione le ricadute esistenziali (quali, altrettanto correttamente, liquidate in favore della vittima).
Le S.U. sorvolano su tale profilo di pregiudizio che tante occasioni trova nella realtà di tutti giorni (e gli esempi potrebbero moltiplicarsi).
Una lacuna vistosa, eppure colmabile – questo il mio pensiero – sulla base dell’affermato princpio del risarcimento integrale.
Siffatto profilo di danno continuerà ad imporsi e a dover essere risarcito, in via autonoma rispetto alla posta biologica; negarlo significherebbe sconfessare il predetto principio, pur poderosamente consacrato dalle S.U.
Affermarlo espressamente, però, avrebbe comportato di necessità il riconoscimento e la consacrazione del danno esistenziale, collocandolo in una sfera di rilevanza autonoma. Ecco, dunque, svelato l’arcano, il motivo cioè del silenzio su tale specifico profilo.