Le S.U., l’accusa agli esistenzialisti, il silenzio sulle attività realizzatrici

Scritto il 04 Dicembre 2008 in Dc-Danno non Patrimoniale

Ogni volta che si rilegge la pronuncia delle SU, è un’esperienza nuova; un po’ come succede quando si ascoltano e si riascoltanto le canzoni di Sanremo: all’inizio sono davvero bruttine, poi, mano a mano, migliorano. Qui, però, è il contrario, dato che ogni volta si scopre qualcosa in più che non va, un passaggio oscuro, un salto all’indietro, una (anzi, plurime) contraddizioni, e così via.

Il fatto è che, a volerla considerare nel suo complesso, questa sentenza offre qualcosa di buono (e già ne ho parlato, nel mio primo commento), specie ove afferma che il risarcimento deve essere integrale, e che l’interprete è legittimato ad ampliare il catalogo dei diritti inviolabili (chè questi non costituiscono un numero chiuso); e ancora, nella parte in cui riconosce di fatto la risarcibilità del danno esistenziale (rectius, dei pregiudizi esistenziali).

I conti tornano molto meno  quando si affrontano i distinti segmenti della pronuncia, i quali, singolarmente considerati, offrono lo spunto per tutta una serie di riflessioni.

Prendiamo, per cominciare, l’accusa che le SU muovono agli esistenzialisti, dottrina e giurisprudenza, nessuno escluso.

Il capo di imputazione riguarda la confusione in cui sarebbe incorsa la dottrina, nell’ accantonare il profilo dell’ingiustizia, per fare spazio alla sola considerazione del pregiudizio.

Ai sostenitori della neo-voce, cioè, non sarebbe interessata l’individuazione della situazione soggettiva violata, che avrebbero del tutto trascurato, quanto piuttosto il solo profilo della ripercussione determinata dal torto.

Un’accusa grave – a ben vedere – da leggersi, nondimeno, quale difetto di scientificità, e mancanza di rigore nella verifica della fattispecie aquiliana, in tutte le sue componenti: una ridda di sognatori un po’ evanescenti, questi esistenzialisti, insomma.

Quanto alla giurisprudenza di merito, poi, la colpa sarebbe stata quella di non avere percepito siffatta carenza (sono le testuali parole): un gruppo di giudici creduloni che avrebbero seguito ad occhi chiusi ed ingenuamente la dottrina sognatrice che vagheggiava la nuova intrigante figura.

Ebbene, in questa impostazione non può non scorgersi un errore macroscopico, dato che non è affatto vero che gli esistenzialisti si siano disinteressati dell’ingiustizia e, dopo le sentenze gemelle del 2003, di quella con la “I” maiuscola, di impronta costituzionale.

Che alla base della risarcibilità del danno esistenziale dovesse esservi il riscontro dell’antigiuridicità, la dottrina esistenzialista lo ha sempre evidenziato, anche in epoca non sospetta, e intendo dire, anche in epoca anteriore alle sentenze gemelle.

Quella dottrina, infatti, non aveva mancato di mettere in luce la necessità del riscontro di due elementi, entrambi imprescindibili ai fini della risarcibilità del danno esistenziale: (i) in primo luogo, l’essere stata colpita “una situazione meritevole di tutela secondo le chiavi dell’ordinamento”; (ii) e, quindi, la derivazione – dal colpo inferto a quella prerogativa meritevole – della compromissione ad un’attività realizzatrice della persona (dotata anche questa – si intende – del crisma della meritevolezza).

Questo duplice passaggio della teoria esistenzialista è evidentemente sfuggito alle SU, le quali mostrano di prendere lucciole per lanterne, confondendo i due piani del ragionamento.

L’avere focalizzato l’attenzione – come evidentemente ha fatto la dottrina negli anni novanta – sul profilo che, in quella prima fase, richiedeva di essere chiarito, ovverossia che cosa il d.e. fosse propriamente, in cosa si concretizzasse, quale ne fosse il dna, e dunque quale pregiudizio che investe le attività realizzatrici della persona, non può essere (male) interpretato come disattenzione o – peggio ancora – non consapevolezza del rilievo da attribuire al vaglio dell’antigiuridicità.

E a dimostrazione del rigore di metodo cui i poco affidabili giudici di merito esistenzialisti hanno improntato le loro decisioni, è sufficiente il richiamo delle motivazioni su cui hanno fondato l’attribuzione della risposta risarcitoria, nelle quali tutte è sempre presente il riscontro dell’interesse meritevole violato.

Ecco, dunque, il grossolano equivoco (consapevole o meno, poco importa) in cui le SU sono incorse, in una pronuncia che non accenna mai, in nessun passaggio, alle attività realizzatrici, che non parla della quotidianità delle persone, che anzi neppure appare consapevole della centralità che la persona ha assunto, oggigiorno, nel sistema del diritto privato.
Nessun riferimento ai tanti ambiti realizzativi della persona umana: la famiglia, per esempio, il torto endo-familiare in particolare, in cui il ‘grosso’ – guardando alla natura delle ferite che ne scaturiscono – è destinato a collocarsi proprio nel bacino esistenziale (oltrechè in quello sofferenziale).

E si pensi alle svariate occasioni in cui lo stesso legislatore ordinario ha inteso valorizzare le attività realizzatrici.
Qualche esempio.
L’ art. 1 della legge sull’adozione stabilisce che “il minore ha diritto di crescere e di essere educato nell’ambito della propria famiglia”. Ecco, il bambino che venisse allontanato dai proprio genitori e collocato presso un’altra famiglia, pur in assenza dei presupposti di legge idonei a giustificare tanto drastica misura, subirebbe – non c’è che dire – un pregiudizio di indubbia natura esistenziale, per la perdita di quella aspettativa realizzatrice (il crescere nella propria famiglia) sancita dalla norma.
E si pensi, alla legge n. 104/1992, volta a garantire il diritto del disabile alla piena integrazione e partecipazione.
Per non dire, poi, della l. 6/2004, animata nel profondo dal motivo promozionale, con la predisposizione per i soggetti svantaggiati di quei supporti gestionali che li agevolino nel condurre la vita quotidiana.
Ancora, le norme contro le discriminazioni, e quelle per la parità di trattamento nell’accesso al lavoro e sul lavoro.
E l’elenco potrebbe continuare ancora a lungo.

Di tutto questo non parlano le SU, soffermandosi ripetutamente, ossessivamente, sul profilo dell’ingiustizia, e sfiorando il limite del parossismo nel ripetere: badate che il danno non patrimoniale …, badate che il danno esistenziale potrà essere risarcito soltanto in questi casi: – reato; – casi previsti dalla legge ordinaria; – violazione di diritti di rango costituzionale.
Eppure, si sarebbe dovuto parlare del danno, di quello che – in un raro passaggio di lucidità – le stesse SU avvertono essere un danno-conseguenza, quello cioè (aggiungiamo noi) che si misura partendo dal basso, dal vissuto delle persone, da ciò che è accaduto – dopo il torto – nella loro irripetibile esperienza quotidiana.