La volontà del minore nei procedimenti che lo riguardano

Scritto il 26 Novembre 2015 in Diritto di Famiglia

Come ben noto, di regola ogni persona diventa capace di esercitare da sola i suoi diritti, esprimendo la propria volontà, solo col compimento del diciottesimo anno d’età, e quindi col raggiungimento di una maturità considerata dal legislatore sufficiente per assumere validamente le decisioni che la riguardano.

Tuttavia, anche il minore, non diversamente dall’adulto, ha il diritto inviolabile di essere felice e di realizzare la propria personalità, tanto più all’interno del nucleo familiare ove, proprio a tal fine, bisogna tener conto non solo delle sue inclinazioni naturali ma anche delle sue aspirazioni e dei suoi progetti di vita.

Pertanto, la volontà manifestata dal minore deve rappresentare un fattore essenziale in ordine alle decisioni che lo riguardano. Nell’ipotesi di separazione personale dei coniugi, ad esempio, la volontà del loro figlio minore costituisce ormai un elemento determinante per la decisione del giudice in merito alla sua collocazione presso uno dei due genitori. Così anche nell’ambito dei procedimenti di divorzio ed in quelli coinvolgenti il figlio nato al di fuori del matrimonio.

Indispensabile, a tal fine, è che il minore, a prescindere dalla sua età, sia considerato dal giudice stesso capace di discernimento, ossia abbastanza maturo da poter scegliere in autonomia ciò che è meglio per la sua vita. La legge dispone che tale traguardo di maturità, atto a garantirgli il cosiddetto “diritto di ascolto”, è raggiunto con il dodicesimo anno di età, ma non esclude però che un’età inferiore possa bastare, purché si riscontri in concreto nel minore un’adeguata capacità di discernere.

Il “diritto di ascolto” è pertanto un diritto assoluto del minore, inserito nel nostro ordinamento giuridico sulla scorta di numerose indicazioni internazionali. Esso rappresenta la valorizzazione del minore come persona.

La legge 219 del 2012 ha infatti previsto il nuovo art. 336-bis, c.c., secondo cui il minore di anni dodici, ma anche di età inferiore se capace di discernimento, deve essere ascoltato dal Presidente del Tribunale o dal Giudice delegato nell’ambito dei procedimenti che lo riguardano. Prima di procedere, il giudice informa il minore sugli effetti che potrebbero derivare dal suo ascolto.

Solo nel caso in cui l’audizione fosse in contrasto con l’interesse del minore stesso, o manifestamente superflua, il giudice non procede all’ascolto, dandone atto con provvedimento motivato.

Infine, la norma prevede che l’ascolto sia condotto dal giudice, anche avvalendosi di esperti o di altri ausiliari, ammettendosi a partecipare all’ascolto i genitori, i difensori delle parti, il curatore speciale del minore, se nominato, ed il pubblico ministero.

Per giunta, la Corte di Cassazione, con recente sentenza n. 5237 del 5 marzo 2014, ha escluso che tale procedura abbia una funzione meramente ricognitiva, rimarcando invece il rilievo che il “diritto di ascolto” del minore ha ormai assunto tanto nel nostro ordinamento quanto in ambito internazionale. La suprema Corte ha dunque affermato che quando si sia proceduto all’ascolto del minore, della volontà così manifestata si deve sempre e comunque tener conto.

Infatti, in questo modo – continua la Corte – si persegue l’interesse superiore del minore, corrispondente al suo armonico sviluppo psichico, fisico e relazionale, da perseguirsi anche attraverso l’immediata percezione delle sue opinioni in merito alle scelte che lo riguardano, consentendo la partecipazione del minore stesso al giudizio, in quanto parte in senso sostanziale.

Per cogliere appieno la portata innovativa di tale sentenza è opportuno rivisitarla in fatto e in diritto.
La vicenda in questione riguarda la minore P.C. che, a fronte dell’intervenuta separazione personale tra i genitori, veniva affidata in via condivisa ad entrambi con collocazione prevalente presso la madre, residente in New York. Successivamente, però, il padre prelevava la figlia all’uscita di scuola, riconducendola in Italia. La madre ricorreva quindi al Tribunale dei minori di Firenze, richiedendo che venisse disposto il rimpatrio della figlia. Il Tribunale adìto, dopo l’ascolto della minore, accoglieva la richiesta della madre, affermando la natura illegale della sottrazione della figlia posta in essere dal padre, senza considerare peraltro la volontà contraria al rimpatrio espressa dalla minore, sebbene ritenuta dal Tribunale stesso “assolutamente in grado di esprimere il proprio pensiero, le proprie emozioni, gli stati d’animo e le proprie esigenze”.

Il Tribunale, nella fattispecie, considerava quindi l’ascolto della minore, della quale peraltro riconosceva la piena capacità di discernimento, solo uno strumento per valutare il rischio di pericolo fisico o psichico nel caso di rientro. Secondo il Tribunale, infatti, dall’audizione della minore non era emerso il rischio di un’esposizione a danni psicologici, né ad una situazione intollerabile, in quanto la piccola P.C. in New York aveva relazioni affettive e sociali ben radicate. La preferenza espressa per la convivenza con il padre, peraltro, poteva attribuirsi, secondo il Tribunale, ad una maggiore empatia con lo stesso e ad una maggiore permissività del genitore, di per sé stessa contraria all’interesse della minore, perché ispirata a censurabili criteri educativi.

Per contro, invece, ad avviso della Corte di Cassazione successivamente adìta dal padre della piccola contro la suddetta decisione di merito, la volontà contraria della minore, nella specie espressamente manifestata, deve costituire un’ipotesi del tutto autonoma, da valutarsi indipendentemente da quella inerente a eventuali pericoli correlati al rientro.

La Cassazione, quindi, accogliendo il ricorso del padre proprio grazie alle dichiarazioni rese dalla figlia, ha affermato il principio per cui qualora, ricorrendone i presupposti, si sia proceduto all’audizione del minore, della volontà così manifestata deve sempre e necessariamente tenersi conto ai fini della decisione finale, senza ridurre tale ascolto a semplice accertamento dell’esistenza o meno di una situazione di pericolo.