La perdita del nascituro, il danno non patrimoniale, le parole non dette

Scritto il 06 Luglio 2009 in Dc-Danni ai Familiari Dc-Danno non Patrimoniale

Una gestante alla 31ma settimana di gravidanza viene ricoverata in preda a gravi contrazioni uterine. A causa del ritardo negligente con cui i sanitari intervengono, la donna perde il feto e insorge a suo carico una grave trombroflebite con embolia polmonare.

Da qui la domanda di risarcimento formulata dalla donna, domanda accolta dal tribunale di Roma.

La pronuncia mostra di essere ben consapevole dei principi affermati dalle Sezioni Unite, principi che ha cura di richiamare, in quest’ordine: a) la nuova accezione del danno morale, da intendere quale sofferenza non necessariamente transeunte; b) la valorizzazione del danno biologico, quale categoria in grado di comprendere anche i pregiudizi di tipo esistenziale; c) la necessità di procedere a personalizzazione di tale voce, per assicurare il ristoro del danno nella sua interezza (integralità del risarcimento).

Principi, e chiavi interpretative, quelle appena richiamate, da cui il tribunale romano trae motivo e rassicurazione per approntare le seguenti risposte concrete:

– la prima: vi è, nella specie, un danno biologico in senso proprio (gli esiti della tromboflebite) e vi è – dotato di consistenza propria – un danno non patrimoniale per la perdita del feto. Si tratta di un’enunciazione non trascurabile, dato che non si confondono lucciole con lanterne: oltre alla compromissione dell’integrità fisio-psichica, in altri termini, vi può essere (e qui vi è) un pregiudizio non patrimoniale che si colloca al di fuori della sfera biologica, un pregiudizio che reclama, allora, riscontro autonomo, distinto;
– la seconda risposta riguarda, più da vicino, il danno biologico: esso va inteso come “modificazione peggiorativa dello stato somato-psichico ed esistenziale, comprensivo di tutte le funzioni vitali, culturali, sessuali, ricreative, estetiche volte all’esplicazione della personalità umana negli ambienti sociali in cui normalmente l’individuo opera indipendentemente da un effettivo pregiudizio alla capacità di guadagno”. Un tipo di danno, dunque, dai contorni estesi, tale cioè da occupare anche lo spazio altrimenti destinato (ante-sezioni unite) alla voce esistenziale.
Come tale – ecco il punto – il danno biologico va personalizzato, non potendo bastare l’ asettico calcolo tabellare. E dato che le tabelle, nella specie, condurrebbero ad una liquidazione di circa quindicimila euro, la personalizzazione in chiave equitativa conduce all’attribuzione di ventimila euro: “il danno biologico” – ecco la riflessione – “va liquidato equitativamente dovendo determinarsi l’equivalente monetario di un valore umano insostituibile quale è il “benessere” perduto”.
– terza risposta, e – direi – passaggio ancor più qualificante della sentenza, che mostra una ancor più spiccata ispirazione esistenzialista: vi è un danno ulteriore, è il danno da perdita del nascituro, è di natura non patrimoniale, una posta che vale qui 50.000 euro (e si consideri che – questo aveva concluso precedentemente l’estensore – tale perdita era ascrivibile alla colpa medica per una percentuale modesta, essendo giunta la gestante in ospedale allorchè già il feto era compromesso). E che dire, ancora, se non rilevare che il pregiudizio determinato da tale perdita, a carico di una gestante quasi-mamma, ha consistenza non biologica, quanto piuttosto morale ed esistenziale?
Suggerimenti per la prossima volta? Il coraggio delle parole.
Una gestante alla 31ma settimana di gravidanza viene ricoverata in preda a gravi contrazioni uterine. A causa del ritardo negligente con cui i sanitari intervengono, la donna perde il feto e insorge a suo carico una grave trombroflebite con embolia polmonare.
Da qui la domanda di risarcimento formulata dalla donna, domanda accolta dal tribunale di Roma, con questa sentenza cortesemente inviataci dallo studio Lana Lagostena Bassi.

La pronuncia mostra di essere ben consapevole dei principi affermati dalle Sezioni Unite, principi che ha cura di richiamare, in quest’ordine: a) la nuova accezione del danno morale, da intendere quale sofferenza non necessariamente transeunte; b) la valorizzazione del danno biologico, quale categoria in grado di comprendere anche i pregiudizi di tipo esistenziale; c) la necessità di procedere a personalizzazione di tale voce, per assicurare il ristoro del danno nella sua interezza (integralità del risarcimento).
Principi, e chiavi interpretative, quelle appena richiamate, da cui il tribunale romano trae motivo e rassicurazione per approntare le seguenti risposte concrete:

– la prima: vi è, nella specie, un danno biologico in senso proprio (gli esiti della tromboflebite) e vi è – dotato di consistenza propria – un danno non patrimoniale per la perdita del feto. Si tratta di un’enunciazione non trascurabile, dato che non si confondono lucciole con lanterne: oltre alla compromissione dell’integrità fisio-psichica, in altri termini, vi può essere (e qui vi è) un pregiudizio non patrimoniale che si colloca al di fuori della sfera biologica, un pregiudizio che reclama, allora, riscontro autonomo, distinto;
– la seconda risposta riguarda, più da vicino, il danno biologico: esso va inteso come “modificazione peggiorativa dello stato somato-psichico ed esistenziale, comprensivo di tutte le funzioni vitali, culturali, sessuali, ricreative, estetiche volte all’esplicazione della personalità umana negli ambienti sociali in cui normalmente l’individuo opera indipendentemente da un effettivo pregiudizio alla capacità di guadagno”. Un tipo di danno, dunque, dai contorni estesi, tale cioè da occupare anche lo spazio altrimenti destinato (ante-sezioni unite) alla voce esistenziale.
Come tale – ecco il punto – il danno biologico va personalizzato, non potendo bastare l’ asettico calcolo tabellare. E dato che le tabelle, nella specie, condurrebbero ad una liquidazione di circa quindicimila euro, la personalizzazione in chiave equitativa conduce all’attribuzione di ventimila euro: “il danno biologico” – ecco la riflessione – “va liquidato equitativamente dovendo determinarsi l’equivalente monetario di un valore umano insostituibile quale è il “benessere” perduto”.
– terza risposta, e – direi – passaggio ancor più qualificante della sentenza, che mostra una ancor più spiccata ispirazione esistenzialista: vi è un danno ulteriore, è il danno da perdita del nascituro, è di natura non patrimoniale, una posta che vale qui 50.000 euro (e si consideri che – questo aveva concluso precedentemente l’estensore – tale perdita era ascrivibile alla colpa medica per una percentuale modesta, essendo giunta la gestante in ospedale allorchè già il feto era compromesso). E che dire, ancora, se non rilevare che il pregiudizio determinato da tale perdita, a carico di una gestante quasi-mamma, ha consistenza non biologica, quanto piuttosto morale ed esistenziale?
Suggerimenti per la prossima volta? Il coraggio delle parole.
Una gestante alla 31ma settimana di gravidanza viene ricoverata in preda a gravi contrazioni uterine. A causa del ritardo negligente con cui i sanitari intervengono, la donna perde il feto e insorge a suo carico una grave trombroflebite con embolia polmonare.
Da qui la domanda di risarcimento formulata dalla donna, domanda accolta dal tribunale di Roma, con questa sentenza cortesemente inviataci dallo studio Lana Lagostena Bassi.

La pronuncia mostra di essere ben consapevole dei principi affermati dalle Sezioni Unite, principi che ha cura di richiamare, in quest’ordine: a) la nuova accezione del danno morale, da intendere quale sofferenza non necessariamente transeunte; b) la valorizzazione del danno biologico, quale categoria in grado di comprendere anche i pregiudizi di tipo esistenziale; c) la necessità di procedere a personalizzazione di tale voce, per assicurare il ristoro del danno nella sua interezza (integralità del risarcimento).
Principi, e chiavi interpretative, quelle appena richiamate, da cui il tribunale romano trae motivo e rassicurazione per approntare le seguenti risposte concrete:

– la prima: vi è, nella specie, un danno biologico in senso proprio (gli esiti della tromboflebite) e vi è – dotato di consistenza propria – un danno non patrimoniale per la perdita del feto. Si tratta di un’enunciazione non trascurabile, dato che non si confondono lucciole con lanterne: oltre alla compromissione dell’integrità fisio-psichica, in altri termini, vi può essere (e qui vi è) un pregiudizio non patrimoniale che si colloca al di fuori della sfera biologica, un pregiudizio che reclama, allora, riscontro autonomo, distinto;
– la seconda risposta riguarda, più da vicino, il danno biologico: esso va inteso come “modificazione peggiorativa dello stato somato-psichico ed esistenziale, comprensivo di tutte le funzioni vitali, culturali, sessuali, ricreative, estetiche volte all’esplicazione della personalità umana negli ambienti sociali in cui normalmente l’individuo opera indipendentemente da un effettivo pregiudizio alla capacità di guadagno”. Un tipo di danno, dunque, dai contorni estesi, tale cioè da occupare anche lo spazio altrimenti destinato (ante-sezioni unite) alla voce esistenziale.
Come tale – ecco il punto – il danno biologico va personalizzato, non potendo bastare l’ asettico calcolo tabellare. E dato che le tabelle, nella specie, condurrebbero ad una liquidazione di circa quindicimila euro, la personalizzazione in chiave equitativa conduce all’attribuzione di ventimila euro: “il danno biologico” – ecco la riflessione – “va liquidato equitativamente dovendo determinarsi l’equivalente monetario di un valore umano insostituibile quale è il “benessere” perduto”.
– terza risposta, e – direi – passaggio ancor più qualificante della sentenza, che mostra una ancor più spiccata ispirazione esistenzialista: vi è un danno ulteriore, è il danno da perdita del nascituro, è di natura non patrimoniale, una posta che vale qui 50.000 euro (e si consideri che – questo aveva concluso precedentemente l’estensore – tale perdita era ascrivibile alla colpa medica per una percentuale modesta, essendo giunta la gestante in ospedale allorchè già il feto era compromesso). E che dire, ancora, se non rilevare che il pregiudizio determinato da tale perdita, a carico di una gestante quasi-mamma, ha consistenza non biologica, quanto piuttosto morale ed esistenziale?
Suggerimenti per la prossima volta? Il coraggio delle parole.
Una gestante alla 31ma settimana di gravidanza viene ricoverata in preda a gravi contrazioni uterine. A causa del ritardo negligente con cui i sanitari intervengono, la donna perde il feto e insorge a suo carico una grave trombroflebite con embolia polmonare.
Da qui la domanda di risarcimento formulata dalla donna, domanda accolta dal tribunale di Roma, con questa sentenza cortesemente inviataci dallo studio Lana Lagostena Bassi.

La pronuncia mostra di essere ben consapevole dei principi affermati dalle Sezioni Unite, principi che ha cura di richiamare, in quest’ordine: a) la nuova accezione del danno morale, da intendere quale sofferenza non necessariamente transeunte; b) la valorizzazione del danno biologico, quale categoria in grado di comprendere anche i pregiudizi di tipo esistenziale; c) la necessità di procedere a personalizzazione di tale voce, per assicurare il ristoro del danno nella sua interezza (integralità del risarcimento).
Principi, e chiavi interpretative, quelle appena richiamate, da cui il tribunale romano trae motivo e rassicurazione per approntare le seguenti risposte concrete:

– la prima: vi è, nella specie, un danno biologico in senso proprio (gli esiti della tromboflebite) e vi è – dotato di consistenza propria – un danno non patrimoniale per la perdita del feto. Si tratta di un’enunciazione non trascurabile, dato che non si confondono lucciole con lanterne: oltre alla compromissione dell’integrità fisio-psichica, in altri termini, vi può essere (e qui vi è) un pregiudizio non patrimoniale che si colloca al di fuori della sfera biologica, un pregiudizio che reclama, allora, riscontro autonomo, distinto;
– la seconda risposta riguarda, più da vicino, il danno biologico: esso va inteso come “modificazione peggiorativa dello stato somato-psichico ed esistenziale, comprensivo di tutte le funzioni vitali, culturali, sessuali, ricreative, estetiche volte all’esplicazione della personalità umana negli ambienti sociali in cui normalmente l’individuo opera indipendentemente da un effettivo pregiudizio alla capacità di guadagno”. Un tipo di danno, dunque, dai contorni estesi, tale cioè da occupare anche lo spazio altrimenti destinato (ante-sezioni unite) alla voce esistenziale.
Come tale – ecco il punto – il danno biologico va personalizzato, non potendo bastare l’ asettico calcolo tabellare. E dato che le tabelle, nella specie, condurrebbero ad una liquidazione di circa quindicimila euro, la personalizzazione in chiave equitativa conduce all’attribuzione di ventimila euro: “il danno biologico” – ecco la riflessione – “va liquidato equitativamente dovendo determinarsi l’equivalente monetario di un valore umano insostituibile quale è il “benessere” perduto”.
– terza risposta, e – direi – passaggio ancor più qualificante della sentenza, che mostra una ancor più spiccata ispirazione esistenzialista: vi è un danno ulteriore, è il danno da perdita del nascituro, è di natura non patrimoniale, una posta che vale qui 50.000 euro (e si consideri che – questo aveva concluso precedentemente l’estensore – tale perdita era ascrivibile alla colpa medica per una percentuale modesta, essendo giunta la gestante in ospedale allorchè già il feto era compromesso). E che dire, ancora, se non rilevare che il pregiudizio determinato da tale perdita, a carico di una gestante quasi-mamma, ha consistenza non biologica, quanto piuttosto morale ed esistenziale?
Suggerimenti per la prossima volta? Il coraggio delle parole.
Una gestante alla 31ma settimana di gravidanza viene ricoverata in preda a gravi contrazioni uterine. A causa del ritardo negligente con cui i sanitari intervengono, la donna perde il feto e insorge a suo carico una grave trombroflebite con embolia polmonare.
Da qui la domanda di risarcimento formulata dalla donna, domanda accolta dal tribunale di Roma, con questa sentenza cortesemente inviataci dallo studio Lana Lagostena Bassi.

La pronuncia mostra di essere ben consapevole dei principi affermati dalle Sezioni Unite, principi che ha cura di richiamare, in quest’ordine: a) la nuova accezione del danno morale, da intendere quale sofferenza non necessariamente transeunte; b) la valorizzazione del danno biologico, quale categoria in grado di comprendere anche i pregiudizi di tipo esistenziale; c) la necessità di procedere a personalizzazione di tale voce, per assicurare il ristoro del danno nella sua interezza (integralità del risarcimento).
Principi, e chiavi interpretative, quelle appena richiamate, da cui il tribunale romano trae motivo e rassicurazione per approntare le seguenti risposte concrete:

– la prima: vi è, nella specie, un danno biologico in senso proprio (gli esiti della tromboflebite) e vi è – dotato di consistenza propria – un danno non patrimoniale per la perdita del feto. Si tratta di un’enunciazione non trascurabile, dato che non si confondono lucciole con lanterne: oltre alla compromissione dell’integrità fisio-psichica, in altri termini, vi può essere (e qui vi è) un pregiudizio non patrimoniale che si colloca al di fuori della sfera biologica, un pregiudizio che reclama, allora, riscontro autonomo, distinto;
– la seconda risposta riguarda, più da vicino, il danno biologico: esso va inteso come “modificazione peggiorativa dello stato somato-psichico ed esistenziale, comprensivo di tutte le funzioni vitali, culturali, sessuali, ricreative, estetiche volte all’esplicazione della personalità umana negli ambienti sociali in cui normalmente l’individuo opera indipendentemente da un effettivo pregiudizio alla capacità di guadagno”. Un tipo di danno, dunque, dai contorni estesi, tale cioè da occupare anche lo spazio altrimenti destinato (ante-sezioni unite) alla voce esistenziale.
Come tale – ecco il punto – il danno biologico va personalizzato, non potendo bastare l’ asettico calcolo tabellare. E dato che le tabelle, nella specie, condurrebbero ad una liquidazione di circa quindicimila euro, la personalizzazione in chiave equitativa conduce all’attribuzione di ventimila euro: “il danno biologico” – ecco la riflessione – “va liquidato equitativamente dovendo determinarsi l’equivalente monetario di un valore umano insostituibile quale è il “benessere” perduto”.
– terza risposta, e – direi – passaggio ancor più qualificante della sentenza, che mostra una ancor più spiccata ispirazione esistenzialista: vi è un danno ulteriore, è il danno da perdita del nascituro, è di natura non patrimoniale, una posta che vale qui 50.000 euro (e si consideri che – questo aveva concluso precedentemente l’estensore – tale perdita era ascrivibile alla colpa medica per una percentuale modesta, essendo giunta la gestante in ospedale allorchè già il feto era compromesso). E che dire, ancora, se non rilevare che il pregiudizio determinato da tale perdita, a carico di una gestante quasi-mamma, ha consistenza non biologica, quanto piuttosto morale ed esistenziale?
Suggerimenti per la prossima volta? Il coraggio delle parole.