La dipendenza patologica da consumo di alcool, cui si accompagni un disturbo di personalità, con isolamento sociale e, sul versante esterno, con manifestazioni aggressive, di minaccia, ingiuria, danneggiamento può giustificare, oggigiorno, la misura dell’interdizione o dell’inabilitazione?
La risposta è negativa, senza meno, allorchè sussista una stilla di consapevolezza a livello cognitivo.
Più difficile la risposta (per taluni), nell’ipotesi in cui quello spazio di lucidità manchi totalmente, confluendosi, in tal caso, nella condizione di abituale infermità di mente di cui all’art. 414 c.c. Ma, in tali casi, come suggerisce la Cassazione, la scelta del giudice per l’una o l’altra misura di protezione dovrà orientarsi sulla considerazione delle attività da compiersi, e del rischio di pregiudizio per la persona, qualora non se ne limiti la capacità di agire.
La scelta compiuta dal g.t. di Varese valorizza, correttamente, lo spazio di consapevolezza e lucidità dell’interessata, ed altresì l’insegnamento della Cassazione: non si guardi a quanto sta male la persona, ma alle attività da compiersi.
La non imprescindibilità del consenso dell’amministrando, così bene sottolineato dall’ultima pronuncia di legittimità (Cass. 1 marzo 2010, n. 4866) rafforza ulteriormente il convincimento del g.t. lombardo, circa la possibilità di mettere in campo l’amministrazione di sostegno.
L’interdizione, tuttavia, fa capolino nel decreto istitutivo, come spauracchio, minaccia a fin di bene, rivolta cioè all’interessata per indurla a ricercare un aiuto sul piano terapeutico. Così, i seguenti passaggi:
-“il g.t. (…) ha rappresentato a questa, con estrema chiarezza, i rischi cui la stessa andava incontro con la propria condotta; e cioè il rischio di una inevitabile interdizione”;
– “se, in quest’anno, vi saranno stati successi, l’amministrazione potrà essere rimossa o prorogata; in caso di insuccesso, l’ufficio sarà costretto a valutare la improcrastinabile necessità di una misura di protezione più grave ed incisiva”.
Che l’interdizione costituisce un male da evitare il più possibile appare, dunque, più che chiaro nel decreto.
D’ altra parte, che l’interdizione possa offrire una protezione più efficace è poco plausibile, e lo dimostra la stessa scelta compiuta dal giudice varesotto, riguardo alla combinazione di compiti/poteri attribuiti al vicario; compiti ritagliati ad hoc, a misura cioè dei bisogni specifici da fronteggiare.
Al figlio della beneficiaria, nominato amministratore di sostegno, vengono attribuite – in effetti -funzioni sia di rappresentanza esclusiva, sia di assistenza; tra queste ultime, le decisioni sul versante sanitario/terapeutico, e dunque la prestazione del consenso informato da parte della diretta interessata.
Si noti bene; riguardo a tale specifico ma fondamentale profilo, il g.t. attribuisce al vicario poteri di assistenza: “assistere la beneficiaria nella prestazione del consenso informato (…) ai trattamenti terapeutici (…) accompagnerà la beneficiaria , anche nel dialogo con il medico (…) si preoccuperà di proporre alla b. la frequentazione di un gruppo di alcolisti anonimi (…) concerterà con i servizi sociali di competenza, in ragione del territorio, le attività da intraprendere”.
Ecco, allora. Questo accompagnamento rispetto ad un atto di natura personale/sanitaria sarebbe realizzabile con l’interdizione o con l’inabilitazione? Si potrebbe immaginare, cioè, un tutore che affianca la persona nelle valutazioni e scelte terapeutiche, valorizzandone gli spazi di consapevolezza e capacità critica? E, in tutto ciò, potrebbe ipotizzarsi un sovranità che resta integra riguardo alla prestazione del consenso sanitario?
Un’altra ragione per continuare ad escludere – anche nel caso di specie – l’opzione più afflittiva è da vedersi, poi, nella stessa fonte sovranazionale opportunamente invocata dal giudice tutelare – Convenzione di New York sui diritti delle persone con disabilità. Come si legge nel decreto, uno dei dettami centrali della Convenzione è la temporaneità della misura di protezione; tanto che nel caso deciso, viene scelta la durata di un anno per l’AdS, eventualmente prorogabile.
Il carattere di temporaneità – d’altra parte – non caratterizza le vecchie misure di protezione; il regime della tutela/curatela anela, infatti, ad essere immutabile e perpetuo (quanti casi di revoca possono contarsi negli annali della giurisprudenza?).
Ecco, allora, un motivo di riflessione: come giustificare l’interdizione alla luce dei principi sovranazionali in materia di protezione delle persone disabili?