Il diritto del bambino a crescere nella propria famiglia: principio talvolta disatteso, non di rado male attuato

Scritto il 04 Giugno 2010 in Dc-Rapporti tra genitori e figli

Pubblichiamo la relazione svolta da Rita Rossi al Convegno di Palermo, organizzato da ANFI Sicilia e svoltosi il 3 giugno 2010.

 

Cercherò di affrontare – insieme a Voi – un nodo centrale e spinoso (devo dire) del nostro sistema di protezione del bambino e dell’adolescente. Si tratta di questo: in quali condizioni è possibile che il minore venga allontanato dalla famiglia di origine e collocato presso terzi (un’altra famiglia, o una struttura di ‘protezione’)? E, ancora, in quali condizioni è possibile che l’allontanamento venga mantenuto, come spesso avviene, per mesi e talvolta per anni, a tempo indefinito?

Per rispondere, dobbiamo – prima di tutto – avere ben presente qual è la normativa di riferimento; e già qui le incertezze sono più d’una, dato che ci troviamo di fronte ad una vera e propria selva di disposizioni, eterogenee, frammentarie; e questo si deve al fatto che dette norme hanno visto la luce in momenti storici diversi, e sono state approvate in maniera disorganica.

1. Il quadro disciplinare, allora. Partiamo, allora, dal principio base sancito dall’ art. 1 della l. adozione (l. n. 184/1983): “Il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia”. Da notare come la locuzione “di crescere” sia stata introdotta nel 2001, allorquando la legge in parola è stata modificata ed innovata; e si è trattato di un’aggiunta significativa. Pensiamo, infatti, come il “crescere” di un bambino, per divenire persona adulta, richieda apporti di vario genere, da parte dei genitori: non solo, dunque, l’apporto educativo, ma tutto l’insieme di cura e accudimento, materiale e relazionale-affettivo. L’espressione “crescere” fa, dunque, riferimento all’intera spinta realizzatrice che è propria della persona umana fin dalla più tenera età. E qui non posso non ricordare come tale diritto del bambino, così consacrato nell’art. 1 trovi addentellato puntuale negli artt. 3 e 30 della Costituzione. L’art. 3 Cost. affida, infatti, alla Repubblica il preciso compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono lo svolgimento della personalità; l’art. 30 Cost. attribuisce ai genitori (e ad entrambi) il dovere-diritto di mantenere, educare ed istruire i propri figli. Questo diritto del bambino è, dunque, un diritto di rango costituzionale, prerogativa cioè insopprimibile della persona umana, nella sua età evolutiva: come tale irrinunciabile, soprattutto non calpestabile. Ma non è la sola disposizione che ci riguarda. I commi successivi dell’art. 1 aggiungono e specificano che le condizioni di indigenza dei genitori non possono ostacolare l’esercizio di questo diritto; e, dunque, le istituzioni devono approntare gli interventi necessari per i nuclei a rischio, in modo da prevenire l’abbandono e consentire al bambino di rimanere nella propria famiglia (ecco tornare l’art. 3 della Cost.). Veniamo, poi, all’ art. 2 co.I della legge adozione, il quale prevede la possibilità di affidamento etero-familiare allorquando il minore sia temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo e gli interventi di supporto da parte dei servizi non siano valsi a superare la situazione di difficoltà della famiglia. Attenzione, però (e qui cominciano le note dolenti): il III comma dell’art. 2 aggiunge che “in caso di necessità e di urgenza l’affidamento può essere disposto anche senza porre in essere gli interventi previsti nel precedente articolo”. Ebbene, la discrezionalità valutativa rimessa al giudice, circa la sussistenza di un caso di necessità e di urgenza può comportare – lo pongo come interrogativo – un ribaltamento tra regola ed eccezione? Nel senso che potrebbe accadere che si proceda, in tutta una serie di casi, ad un intervento di allontanamento dalla famiglia naturale prescindendo dall’attivazione degli interventi pubblici di sostegno? I dati, le denunce di tanti genitori sono alla base di questo mio dubbio.

Vi è, poi (continuando in questa carrellata veloce di testi normativi), anzi vi era già prima della legge sull’adozione, l’ art. 403 c.c. Disposizione nata con il codice civile, nel 1942, in un sistema – occorre ricordarlo – che era improntato ad una logica patrimonialistica, e non (non ancora) alla centralità della persona. Questa trasformazione evolutiva si verificherà più avanti nel tempo. La stessa Costituzione, che fissa – come già visto – una serie di prerogative fondamentali della persona umana, arriva dopo il 1942, nel 1948 esattamente. La sua attuazione, per quanto ci riguarda oggi, deve peraltro attendere ancora decine di anni, fino agli anni ’70 e ’80, gli anni delle grandi riforme in materia di persona e di famiglia (si parla, in proposito, di privatizzazione del diritto di famiglia e del diritto privato). L’art. 403 – dicevo – è una disposizione figlia del suo tempo: prevede, infatti, un intervento autoritativo della pubblica autorità, e per essa dei servizi sociali, pensato – allora – per la salvaguardia di un interesse di natura pubblicistica. Conosciamo i casi in cui l’art. 403 c.c. contempla l’intervento dei servizi: – nel caso in cui il minore risulti abbandonato moralmente o mater. – nel caso in cui sia collocato in ambienti insalubri o pericolosi – nel caso in cui i genitori siano, per varie ragioni, incapaci di educarlo. Queste condizioni devono dare luogo comunque ad una situazione di urgenza assoluta. La pubblica autorità può, dunque, prelevare il bambino, allontanarlo dalla famiglia, e collocarlo – come dice la norma – “in luogo sicuro”. Questo intervento non richiede alcuna autorizzazione del giudice, né alcuna conoscenza preventiva della fattispecie, da parte di questi. Il giudice resta estraneo all’assunzione di questa iniziativa e interviene a posteriori, dato che i servizi devono notificare il provvedimento al pubblico ministero. E’ l’autorità socio-sanitaria che può intervenire, che detiene questo potere. Domanda: disponiamo di competenze sufficienti al riguardo? E vi sono, ancora, gli artt. 330 e 333 c.c. (modificati con la riforma del diritto di famiglia del 1975). Entrambe le disposizioni prevedono la possibilità di allontanamento del figlio dalla residenza familiare, ma solo se risulti un grave pregiudizio per il figlio, quale conseguenza della violazione dei doveri genitoriali. Il fatto è che queste norme vengono applicate anche in via per così dire ‘preventiva’, ovverossia come intervento volto a evitare un paventato pregiudizio. E se la prima di queste disposizioni – l’art. 330 c.c. – presenta una formulazione più rigida, perché tipizza le condotte e dunque presuppone una verifica preventiva di ciò che è successo, la norma apparentemente residuale e secondaria – l’art. 333 c.c. – è quella che, in realtà, consente ampi spazi di manovra, sul piano applicativo. Una disposizione considerata, in dottrina, come norma di minor peso, appunto, tutto sommato di secondo piano, attivabile laddove le condotte genitoriali siano meno gravi di quelle contemplate dalla norma principale, ma che presenta una formulazione molto elastica, e duttile. Dice infatti l’art. 333 che “il giudice, quando la condotta di uno o di entrambi i genitori appare comunque pregiudizievole per il figlio, può adottare i provvedimenti convenienti anche disponendone l’allontanamento dalla residenza familiare”. Ma, il dato che va sottolineato in particolar modo è la sovrapposizione tra la previsione della possibilità di allontanamento del figlio (contenuta in dette due disposizioni) con la previsione corrispondente di allontanamento rimessa (dall’art. 403 c.c.) all’iniziativa dell’autorità amministrativa.

Andiamo a vedere, infine, la disciplina dell’affidamento condiviso e il novellato art. 155 c.c. Sulla carta, le cose sono migliorate rispetto al passato. Infatti, è sparita dal testo dell’art. 155 c.c. la previsione secondo cui il giudice poteva affidare il bambino a terze persone “per gravi motivi”. Ciò nonostante, si è formato l’orientamento giurisprudenziale che ritiene ugualmente possibile escludere l’affidamento ai genitori; e ciò allorchè non siano praticabili né l’affidamento condiviso né l’affidamento esclusivo. Questa tesi è sorretta dalla considerazione dell’ “interesse del minore” (ma qual è l’interesse del minore ?), e dalla necessità di coordinamento con l’art. 6 cvo. 8 della l. divorzio che non è stato modificato dalla riforma. In questo caso – tuttavia – è il giudice (della separazione o del divorzio) che valuta la necessità di tale provvedimento e che dispone, di conseguenza.

2. Possiamo, dunque, vedere come vi sia una grande frammentazione di disposizioni sparse nei vari settori del diritto di famiglia e minorile. Vi sono sì principi altisonanti, evoluti; ma, nell’insieme abbiamo una rete a maglie larghe, che autorizza l’allontanamento anche improvviso del bambino dai propri genitori, senza preventive verifiche approfondite, e – addirittura nei casi più gravi – senza neppure il vaglio preventivo dell’autorità giudiziaria. Sul piano applicativo, concreto, questo sistema, unito alle lentezze (talvolta quasi inverosimili) dell’iter procedimentale produce effetti negativi, a volte deleteri per i minori e per i loro genitori. Vi porto un esempio (uno tra i tanti) di messa in campo distorta dell’art. 403 c.c. e degli effetti a cascata prodottisi: la madre di una bambina di appena un anno di età decide di separarsi dal marito, e anziché seguire le vie ordinarie (incarico ad un legale, domanda di separazione), chiama a raccolta i propri familiari (fratello e zii compresi); questi fanno un’imboscata al marito, lo malmenano, lo mandano all’ospedale con il naso e le ossa fratturate, e spariscono con la congiunta e la bambina. Questa donna è originaria del Trentino, mentre il nucleo aveva fissato la vita coniugale in un paese delle Marche. Da quel momento della bambina non si saprà più nulla per mesi. Si saprà, dopo mesi, quando cioè viene avviato il procedimento avanti al TM, che quella bambina era stata collocata ex art. 403 c.c. presso una struttura di accoglienza con la madre, dato che questa aveva denunciato violenze da parte del marito. Il fatto è che essendo partito il tutto sulla base dell’art. 403 c.c., oltre alla causa di separazione, quell’uomo deve affrontare un altro procedimento avanti al TM (peraltro a centinaia di km) e può vedere la bambina, oggi ancora, per un’ora a settimana in ambiente protetto. Si è creato cioè fin dall’inizio la presunzione, pressochè assoluta, che lui sia colpevole, e non è valsa (a tutt’oggi) la CTU espletata e che ha appurato la mancanza di indici di personalità violenta in capo al marito, per rimuovere quella presunzione di colpevolezza.

Ma è un altro il caso sul quale ci tengo a richiamare la Vs. attenzione, dato che – più di ogni altro – è in grado di dare l’idea precisa di ciò che, non di rado, si verifica. Sara (il nome è di fantasia) è una bambina nata nel 1999, con una malformazione alla testa; viene sottoposta a due interventi chirurgici quando è ancora molto piccola, con inserimento di una valvola sottocutanea. Ciò rende necessario proteggere la bambina quando gattona, e per questo i genitori nei primi tempi le fanno indossare un caschetto di gomma piuma. A causa della sua condizione fisica, la bambina ha problemi ambulatori, di linguaggio e di relazione. I genitori si fanno estremamente protettivi, tanto che, – quando Sara comincia a frequentare l’asilo – il momento del distacco da loro è difficile. Ad un certo punto, nel luglio 2005, quando già il ciclo della scuola materna volge al termine, le maestre della scuola materna trasmettono una segnalazione ai servizi sociali, una relazione lunga e articolata, che contiene le annotazioni raccolte in tutti gli anni passati; vi si legge di conflittualità tra i genitori (tale riferita dalle maestre, dunque!), di atteggiamento svalutativo del padre verso la madre, di strani riferimenti fatti da Sara a certi giochi con il papà; avrebbe detto “a casa con il papà non gioco più a mamma e papà ma a mamma e figlio”. Insomma, si allude a possibili comportamenti della sfera sessuale, e si aggiunge che la bambina è molto seduttiva e che si tocca ovunque mentre parla. I servizi sociali trasmettono, allora, la relazione della scuola alla Procura Rep. TM Bologna. Il P.M. incarica, allora, i Servizi di indagare sulle condizioni di vita della famiglia; dopodiché, ricevute le informative richieste, il PM chiede provvedimenti a tutela della minore, data la situazione di pregiudizio che “appare”, e, precisamente, viene richiesto l’affidamento provvisorio della bambina ai Servizi; il p.m. non chiede, però (diamogliene atto) che Sara venga allontanata dai propri genitori. Detta domanda del p.m. è del 20.3.2006; a distanza di soli 10 gg. interviene il TM con un decreto urgente, non preceduto da alcuna convocazione dei genitori, con una motivazione del tutto laconica in cui si dice: – c’è forte conflittualità tra i genitori (ricordate? Lo avevano scritto le maestre della scuola materna) – il padre ha un attaccamento morboso alla bambina – la madre manifesta sentimenti di frustrazione/rassegnazione – la bambina è seduttiva e si masturba in classe per intere giornate. Situazioni non verificate, dunque, ma ritenute aprioristicamente, senza alcun accertamento effettivo, e con comportamenti riferiti alla bambina che vengono trasformati inesorabilmente in qualcosa di patologico e sospetto: “la bambina si masturba in classe per intere giornate”. Vorrei farvi riflettere su questo. Pensiamo alla differenza che passa tra il dire – come si trovava scritto nella prima relazione delle maestre “si tocca ovunque mentre parla” e dire invece “si masturba in classe per intere giornate”. E’ la stessa cosa? Il tribunale per i minorenni dispone, dunque, l’affidamento ai servizi e che la bambina venga collocata in un gruppo famiglia. Il tutto viene sorretto, normativamente, con il riferimento all’art. 333 c.c. Ma dov’era qui la condotta pregiudizievole di cui parla l’art. 333? Dove l’istruttoria necessaria per accertare l’effettività delle condote imputate e del pregiudizio ipotizzato a carico della bambina? Da qui è cominciato il calvario di quella famiglia, che prosegue a tutt’oggi. Il decreto che dispone l’allontanamento è di fine marzo 2006; non viene notificato ai genitori né portato a loro conoscenza in alcun modo fino a pochi giorni prima all’oscuro di tutto. Passa un mese e, prevedendo l’opposizione dei genitori, i servizi chiedono al tm l’autorizzazione ad avvalersi della forza pubblica, che viene concessa. Nel frattempo, i genitori ricevono soltanto una laconica citazione a comparire davanti al giudice. Il 12 giugno, prima comunque della comparizione, essi ricevono un telegramma con invito a portare Sara presso i servizi medesimi, il giorno successivo. Qui, Sara viene prelevata dopo che la mamma, su invito degli operatori, la informa che andrà a fare una vacanza ma che si rivedranno presto. Sara viene collocata presso un istituto gestito da religiose, vedrà – da lì in poi – i genitori per un’ora al mese, alla presenza di un educatore. E’ una vera via crucis: addirittura, papà e mamma sono costretti a depositare un ricorso al tm per ottenere di poter partecipare alla Prima Comunione di Sara. C’è voluto l’avvocato e un ricorso per questo. Dopo numerosi tentativi, ottengono finalmente dal giudice l’espletamento di una CTU. Sembra uno spiraglio importante che arriva dopo due anni di buio, soltanto infatti nel giugno 2008, dopo innumerevoli insistenze del difensore: due anni per ottenere un accertamento peritale! Sembrava l’inizio della fine, e invece no. Nel frattempo, le relazioni informative dei Servizi avevano fatto convergere in una direzione diversa le originarie accuse: – non più il riferimento ai comportamenti a sfondo sessuale tra il papà e la bambina; non più la conflittualità; – piuttosto, addebiti generici di discuria, di uno stile genitoriale non rapportato alle caratteristiche di personalità della piccola, di iperprotettività. Sara dunque era stata allontanata dai genitori per determinati asseriti motivi mentre altre erano le ragioni per le quali si continuava a mantenere la bambina lontana dai genitori! La CTU cosa dice? Parla di una certa immaturità dei genitori, di fragilità narcisistica, di una situazione insomma condita a suon di paroloni che fanno effetto ma che in realtà non mettono in evidenza alcun reale elemento idoneo a giustificare il permanere dell’allontanamento. Se fosse così, quanti bambini dovrebbero essere allontanati dai loro genitori! Per fortuna viene ammessa l’esistenza di un innegabile legame affettivo tra la bambina e i genitori, messo a dura prova sì dal quel distacco forzato, ma che ha resistito; Sara, però, esprime riserve all’idea di rimanere la notte con i genitori (si è disabituata, ormai). Il progetto proposto dalla CTU e avallato dal TM è questo: – collocare Sara presso una famiglia affidataria – una volta sperimentato l’inserimento positivo, realizzare gradualmente un incremento dei tempi di incontro: da un’ora al mese, a mezza giornata nel week end, e poi una giornata; a seguire, il fine settimana, dapprima senza pernottamento, poi con pernottamento: il decreto è del 13 maggio 2009, ed è provvisorio, dunque non reclamabile. Ma non è ancora giunto il momento – lo capiranno da lì a poco – di deporre la propria croce. E, infatti, comincia il calvario della fase attuativa. Ad oggi, non è ancora cambiato nulla, tranne che il recentissimo (nello scorso mese di maggio) inserimento di Sara nella famiglia affidataria. Solleciti depositati in tribunale, tradotti in racc.te ai servizi (senza risposta) segnalazioni al Procuratore della Repubblica presso i minori. Per ottenere un minimo sblocco si è dovuti ricorrere alla messa in mora del Comune, ai sensi dell’art. 4 della legge regionale in materia (legge che attribuisce ai Comuni funzioni di intervento e di vigilanza sui servizi sociali nell’interesse dei minori). In pratica, questa messa in mora consente di far valere la responsabilità del Comune, formalmente, a tutti gli effetti, per la mancata attuazione dei provvedimenti giudiziali. Quando venne allontanata aveva sei anni, oggi ne ha undici. E’ uno spunto di riflessione questo.

Bambini che vengono allontanati in modo definitivo, e che, con il passare del tempo si disabituano all’idea della loro casa, della loro famiglia, e che – ad un certo punto – sono loro stessi che non vogliono più incontrare i genitori. Genitori che sono chiamati a spendere anni e anni della loro esistenza in mezzo ad avvocati, giudici, carte, denunce; sempre legati ad un filo di speranza, che talvolta diventa talmente esile, tropo esile. In prospettiva, occorre riflettere sullo statuto che regge l’allontanamento dei minori dalla famiglia naturale. L’art. 403 c.c. è norma antistorica, e comunque inutile, data la vigenza della ben più evoluta legge sull’adozione; a condizione, però, che di essa vengano rispettati i passaggi che contemplano l’intervento dall’esterno per sostenere le funzioni genitoriali, come intervento d’obbligo, non rimesso alla discrezionalità valutativa e decisionale di qualcuno. La riflessione è aperta, su questi punti. (Rita Rossi)

 

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