Alla base di quest’ultima sentenza vi è una fattispecie di dequalificazione, posta in essere dal Comune ai danni di propri dirigenti, i quali domandano – oltre alla reintegra – il risarcimento dei danni patrimoniali e alla lesione della professionalità, dei danni esistenziali, dei danni all’immagine e del danno morale (queste le voci risarcitorie reclamate, stando alle indicazioni della sentenza in commento).
Il tribunale di Milano accoglie le domande; la corte d’appello, tuttavia, riforma in parte la prima decisione, confermando sì l’ammontare liquidato del danno all’immagine, ma rigettando la domanda di risarcimento del danno morale.
Non si dice, nella sentenza, del motivo su cui il giudice d’appello abbia fondato l’esclusione della voce sofferenziale; questo, tuttavia, può trarsi dall’indicazione dei motivi di ricorso fondati sull’ “avere il giudice d’appello rigettato la domanda di condanna al risarcimento dei danni morali per mancanza di reato, trattandosi di diritti inviolabili della persona”. Parrebbe, dunque, che la ragione del rigetto sia coincisa con la valutazione (da parte dei secondi giudici) della insussistenza di un fatto-reato.
Riguardo al danno esistenziale non è per nulla chiaro che cosa ne avesse fatto la corte d’appello, ma – ancora una volta – si ricava dai motivi di ricorso che detta voce non era stata attribuita (lo era stato però il danno all’immagine, seppure in misura ridotta rispetto alla liquidazione del tribunale; ma del danno all’immagine si parla sempre – nella pronuncia in commento – come di voce separata rispetto al danno esistenziale).
Il ricorso in Cassazione riguarda, comunque, la mancata attribuzione delle due voci: morale ed esistenziale. Entrambi i motivi – va subito detto – vengono respinti.
Perché – domandiamoci allora – non viene riconosciuto il danno morale? Sostanzialmente perché (leggiamo) non è stato allegato, mentre si tratta di un pregiudizio non in re ipsa che, pertanto, va provato. Una impostazione, direi, coerente con i principi emersi dalle pronunce novembrine che hanno inteso attribuire al danno morale (rectius, sofferenza interiore) natura e consistenza di pregiudizio non necessariamente transeunte, e dunque voce non standardizzata ma soggetta a puntuale riscontro nella singola fattispecie. Ciò che non torna, invece, sempre a proposito del danno morale, è l’inciso “anche volendo riconoscere il diritto al risarcimento dei danni morali…”. Cosa hanno inteso dire, qui, le ultime S.U.? E’ verosimile che abbiano inteso riferirsi alla ritenuta non configurabilità di un reato.
E veniamo al danno esistenziale. Le prime argomentazioni sul punto non disdegnano, in realtà, di riconoscere l’esistenza della figura; troviamo scritto, infatti: “il cd. danno esistenziale …costituisce solo un ordinario danno non patrimoniale”; ove è evidente che il costituire danno non patrimoniale (il “solo” è del tutto fuori luogo) significherà pure che esso riveste una valenza sostanziale nel momento della liquidazione del danno non patrimoniale!
Il passaggio oscuro viene dopo, nella parte finale, fatta assurgere a principio di diritto: “Il danno c.d. esistenziale, non costituendo una categoria autonoma di pregiudizio, ma rientrando nel danno morale, non può essere liquidato separatamente solo perché diversamente denominato. Il diritto al risarcimento del danno morale, in tutti i casi in cui è ritenuto risarcibile, non può prescindere dalla allegazione da parte del richiedente, degli elementi di fatto dai quali desumere l’esistenza e l’entità del pregiudizio.”
Il danno esistenziale rientrerebbe, dunque, nel danno morale? Ma parliamo del danno morale vero e proprio, il danno morale soggettivo (per intenderci) o del danno non patrimoniale?
La scelta lessicale farebbe propendere per la prima ipotesi, ma ciò vorrebbe dire un ribaltamento ulteriore dei principi e delle regole liquidatorie stabilite l’ 11 novembre: danno esistenziale all’interno del morale. E d’accordo sul fatto che le sentenze novembrine hanno parlato del pregiudizio esistenziale come “sofferenza per non poter più fare”, ma spingersi a tanto appare troppo, francamente.
Se si aderisse, invece, alla seconda ipotesi, leggendo cioè “danno morale” come “danno non patrimoniale”, la coerenza rispetto all’orientamento emerso l’11 novembre ne uscirebbe salva. Ma, possibile che i giudici di legittimità abbiano detto “lucciole” per dire “lanterne” ?