“Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole“; lo stabilisce l’art. 6 par. 1 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata dalla legge 4 agosto 1955, n. 848 e saggiamente richiamata dalla Suprema Corte, nella sentenza in analisi, contestualmente alla legge 24 marzo 2001, n. 89, che afferma: ” chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della Convenzione… ha diritto ad un equa riparazione“.
Sulla base di quanto detto, gli Ermellini si soffermano sulla risarcibilità della violazione di tale diritto in capo a persona interdetta chiarendo che ” il danno non patrimoniale è una conseguenza che, secondo l’id quod plerumque accidit, si accompagna alla violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, ed il risarcimento di tale pregiudizio spetta pure all’interdetto che di esso sia stato parte“.
Interessante è sottolineare come la Corte consideri “errore di diritto” l’argomentazione alla base della precedente statuizione di rigetto, secondo cui l’interdetta, proprio per l’incapacità da cui è affetta, non sarebbe nelle condizioni di subire dolori e privazioni derivanti dal ritardo.
A tal proposito, la Corte chiarisce che, “a prescindere da ogni riferimento al dolore emozionale, il danno de quo è destinato in ogni caso nella specie a rilevare, e ad essere pertanto risarcito, nella sua componente oggettiva di offesa per la lesione di un diritto ad un procedimento giurisdizionale che si svolga nei tempi normali prescritti dalla Costituzione ( art. 111) e per la conseguente perdita dei vantaggi non patrimoniali conseguibili da una sollecita risposta del servizio giustizia“.
Proprio per quest’ultimo passaggio, ovverosia, il riferimento al danno non patrimoniale non identificatesi necessariamente con il danno morale suppletivo è ciò che qualifica in particolare la positività della pronuncia. (V.R.)