Non poteva che recare la firma di Guido Stanzani questo lucido provvedimento modenese, che per primo – nel panorama giurisprudenziale – entra senza titubanze nel vivo dei rapporti tra amministrazione di sostegno, testamento biologico, e scelte di fine vita.
E, a ben vedere, si tratta di un provvedimento che riesce a districare in pochi lineari passaggi una materia che il dibattito socio-politico degli ultimi tempi aveva, al contrario, reso oscura e nodosa.
Il caso è questo: una donna di settant’anni, affetta da un morbo che determina, nella sua progressione, l’ immobilità dei muscoli del torace, con conseguente soffocamento, in mancanza dell’attivazione di una pratica di ventilazione forzata. Si tratta, però, di una pratica invasiva, comportando tracheotomia.
La donna è psichicamente lucida, così come certificato dai medici di riferimento e come pure ha modo di constatare il g.t. di persona: “questo Giudice Tutelare si è recato a visitare la persona e, avvalendosi dell’ausilio interpretativo dei figli per la difficoltà di essa di articolare le parole, si è sentito comunicare, senza tentennamenti, con piena lucidità e con coerenza delle risposte alle domande, la volontà precisa di non intendere di essere sottoposta alla pratica invasiva di cui si è detto contestualmente manifestando una coraggiosa coscienza delle conseguenze probabilmente infauste della propria scelta”. Questo il riscontro, né più né meno.
Le conferme univoche di tutti i familiari (marito e tre figli) rendono chiaro che quella volontà è ferma ed irrevocabile; ma – ecco il nodo – come garantire il rispetto di tale volontà allorchè la congiunta non sarà più in grado di esprimere autonomamente tale propria decisione, negando la prestazione del consenso informato per la pratica salvifica invasiva?
Quel rischio va evitato, e l’ordinamento – osserva l’attento giudice – offre già lo strumento, rappresentato dalla nomina dell’amministratore di sostegno (nella specie, il marito) chiamato, appunto, a negare il consenso informato nel momento in cui si tratterà di intervenire per evitare il soffocamento.
Il bene primario, non negoziabile, che viene qui in considerazione è l’autodeterminazione della persona nella cui sfera rientra “il rifiuto (e la volontà interruttiva) di ipotetiche terapie salvifiche atteso che il principio personalistico che lo consacra a livello costituzionale esclude la possibilità che sia disatteso nel nome di un supposto dovere pubblico di cura proprio di uno Stato etico, peraltro ripudiato dai costituenti”.
E che tale valore vada presidiato anche rispetto all’incapace non vi è alcun dubbio:
“Nessun dubbio che anche in tal caso debba valere, a maggior ragione, il dovere dell’ordinamento al rispetto di una espressione autodeterminativa che null’altro chiede se non che il processo biologico, lungi dal venir forzato, si dipani secondo il suo “iter” naturale” (chè, non si tratta – bando agli equivoci – di eutanasia).
Gli strumenti atti a presidiare questo momento ci sono già tutti – osserva ancora il giudice, in un passaggio motivazionale di assoluta limpidezza: “Già esistono, infatti, il diritto sostanziale (artt. 2, 13 e 32 Cost.), lo strumento a mezzo del quale dare espressione alle proprie volontà (l’atto pubblico o la scrittura privata autenticata, art. 408, comma 2°, c.c. cit.) e, infine, l’istituto processuale di cui avvalersi (l’amministrazione di sostegno, legge n. 6 del 2004)”.