Il danno conseguente al demansionamento va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dal’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, frustrazione professionale) si può, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, ricorrendo, ai sensi dell’art. 115 c.p.c., a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove.
Nel caso di specie, il danno non patrimoniale, derivante dal demansionamento è stato accertato correttamente, essendo stata offerta la prova che la condotta illecita del datore di lavoro ha violato, in modo grave, i diritti che tutelano la figura del lavoratore nel rapporto lavorativo, ovvero si è dimostrato che la mortificazione del lavoratore derivante dalla situazione lavorativa in cui questi si era visto costretto ad operare, gli aveva cagionato un concreto danno non patrimoniale, essendoci un evidente nesso causale tra la condotta illecita del datore e lo stato di mortificazione predetto arrecato al lavoratore.
Nella disciplina del rapporto di lavoro, ove numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata alla persona del lavoratore con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale, il danno non patrimoniale è configurabile ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, tali diritti: questi, non essendo regolati ex ante da norme di legge, per essere suscettibili di tutela risarcitoria dovranno essere individuati, caso per caso, dal giudice del merito, il quale, senza duplicare il risarcimento (con l’attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici), dovrà discriminare i meri pregiudizi – concretizzatisi in disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili – dai danni che vanno risarciti (cfr. Cass. n. 10864 del 2009). Nella specie, il danno risarcibile è esattamente identificato negli “aspetti di vissuta e credibile mortificazione derivanti all’ A. dalla situazione lavorativa in cui si trovò ad operare”, secondo una valutazione che si fonda sull’accertamento del nesso causale tra la condotta illecita datoriale e lo stato di mortificazione del lavoratore e che si sottrae, perciò, alle censure sollevate dal Ministero. […]
La riduzione del danno professionale alla misura “poco più che simbolica” di Euro 1.000,00, e di quello esistenziale alla misura di Euro 3.000 si fonda su valutazioni inadeguate, riferite essenzialmente alla peculiarità della situazione lavorativa dell’ A. a seguito della sua scelta di non transitare nei ruoli degli enti locali. Invero, le rilevate difficoltà organizzative e di collocamento del dipendente sono state definite, nella stessa sentenza, come circostanze limitate temporalmente, in quanto riguardanti una prima fase di transizione, e comunque inidonee a giustificare il demansionamento, tenuto conto che l’ A. “è stato per circa due anni l’unico dipendente della Direzione prov.le del Lavoro di (OMISSIS) che…è rimasto sostanzialmente privo di specifiche mansioni da svolgere (per gli altri colleghi, nel contesto delle vicende riorganizzative dell’ufficio, i disagi conseguenti alla necessità di una ricollocazione lavorativa si sono limitati ad un periodo iniziale)”. D’altra parte, la condotta datoriale non poteva che essere valutata nel suo complesso, considerando, in particolare, la persistenza del comportamento lesivo (sia pure in mancanza di intenti di discriminazione o di persecuzione idonei a qualificarlo come mobbing), la lunga durata di reiterate situazioni di disagio professionale e personale, consistite, fra l’altro, nel dover operare “in un locale piccolo e fatiscente, privo di computer”, l’inerzia dell’amministrazione rispetto alle accertate richieste del dipendente (“di essere utilizzato nell’Area provvedimenti o nell’Area extracomunitari” al fine di poter lavorare in un settore operativo-amministrativo”) intese a non compromettere il patrimonio di esperienza e qualificazione professionale, che costituiva un suo primario diritto a prescindere dalla esistenza di specifiche aspettative di progressione di carriera. […]