Due importanti principi, quelli espressi dalla Corte di Appello di Potenza:
a) il danno esistenziale non ha nulla a che vedere con le lacrime, le sofferenze, i dolori, i patemi d’animo: il danno morale è essenzialmente un sentire, il danno esistenziale è piuttosto un non fare, cioè un non poter più fare, un dover agire altrimenti, un relazionarsi diversamente;
b) una nozione ampia, costituzionalmente orientata, del danno non patrimoniale, esorbita non solo da una visione penalistica, ma anche da una impostazione limitativa del risarcimento ai casi previsti dalla legge: nel perdurante vigore dell’art. 2059 c.c., allorquando vengano in considerazione valori personali di rilievo costituzionale, deve escludersi che il risarcimento del danno non patrimoniale, ai sensi dell’art. 2059 c.c., sia soggetto al limite derivante dalla riserva di legge (tanto più se correlata all’art. 185 c.p.).
Secondo i giudici lucani, ciò che rileva, ai fini dell’ammissione a risarcimento, in riferimento all’art. 2059 c.c., è l’ingiusta lesione di un interesse alla persona, dal quale conseguano pregiudizi non suscettibili di valutazione economica, in quanto una lettura della norma costituzionalmente orientata impone di ritenere inoperante il detto limite, se la lesione ha riguardato valori della persona costituzionalmente garantiti.
Di fatto, “risulta ormai anzi recepita la categoria del danno esistenziale, che comprende qualsiasi danno non patrimoniale che l’individuo subisce alle attività realizzatici della propria persona”.
Nella fattispecie, peraltro, l’appellante (che intendeva ottenere il riconoscimento, ai fini pensionistici, dei contributi regolarmente versati in relazione alla propria attività lavorativa, e corrisposti erroneamente anche nei cinque anni successivi alla sospensione dell’attività medesima), non ha ottenuto alcun risarcimento a titolo di danno esistenziale, non avendo in alcun modo fornito la prova di un peggioramento della qualità della propria vita conseguente alla perdita del diritto al pensionamento.
Il Giudice del lavoro del Tribunale di Potenza, con sentenza n. (…)/08 resa tra le parti in data 6.3.2008 accoglieva solo parzialmente il ricorso presentato in data 9.5.2006 da L.M. nei confronti dell’I.N.P.S., volto ad ottenere il riconoscimento a fini pensionistici dei contributi regolarmente versati negli anni dal 1987 al 1992 in relazione all’attività lavorativa (gestione di bar-ristorante albergo) avviata nel 1978 e sospesa nel 1987 e, quindi, l’attribuzione della pensione di anzianità, o almeno la restituzione di quanto indebitamente trattenuto dall’I.N.P.S. a titolo di contributi versati non dovuti ex art. 2033 c.c., oltre interessi e risarcimento del danno, e condannava l’Istituto al pagamento in favore del La. della sola somma di Euro 47,97 di cui Euro 19,36 a titolo di capitale ed Euro 28,61 a titolo di interessi oltre ulteriori interessi al saldo; le spese restavano compensate tra le parti, tranne quelle della disposta C.T.U., poste ad esclusivo carico dell’I.N.P.S..
Riteneva il primo giudice che non sussistevano i presupposti per il riconoscimento della contribuzione (non legittimamente versata rispetto ad una attività non esercitata) né per l’attribuzione della pensione di anzianità (mancando il raggiungimento del tetto contributivo richiesto) né per il risarcimento del danno, non essendo ravvisabile alcun profilo di colpa da parte dell’I.N.P.S., all’oscuro della effettiva situazione nel periodo considerato e neppure per il danno esistenziale prospettato, peraltro del tutto sfornito di prova.
Per la riforma di questa sentenza proponeva rituale appello il L., con ricorso depositato in data 13.6.2008, e deduceva: 1) errore in iudicando – violazione art. 54 legge n. 88/1989 – violazione artt. 1175, 1176, 1218, 1227, 2043 c.c. – illogica e/o insufficiente e/o omessa motivazione con riferimento alla esclusione di ogni comportamento colposo da parte dell’I.N.P.S. ritenuto all’oscuro della cessazione dell’attività solo dopo l’adozione del provvedimento di cancellazione del 28.2.94; 2) errore in iudicando – violazione art. 2033 c.c. – violazione art. 1223, 1224 e 1226 c.c. – motivazione errata, illogica, insufficiente e/o omessa sempre con riferimento alla esclusione di responsabilità dell’I.N.P.S. in ordine alla richiesta di restituzione dell’indebito; 3) motivazione errata, illogica insufficiente ed omessa con riferimento al diniego della richiesta di danno esistenziale. Chiedeva, pertanto, all’adita Corte di accogliere le conclusioni come sopra riportate.
(…)
L’appello proposto da L.M. deve essere rigettato.
(…)
La pretesa oggetto di diniego da parte del primo giudice non riguarda un danno biologico (non risultando che dalla prospettazione di cui al ricorso una compromissione della integrità psico – fisica del La.), né un danno morale (il ricorrente non chiede il risarcimento del pretium doloris derivatogli dal comportamento dell’I.N.P.S.); il risarcimento invocato si ricollega piuttosto a quella categoria di danno non patrimoniale che la miglior dottrina e giurisprudenza hanno qualificato come esistenziale, inerendo, appunto, l’esistenza della persona.
In particolare, come è stato evidenziato in dottrina e giurisprudenza, il danno esistenziale non ha nulla a che vedere con le lacrime, le sofferenze, i dolori, i patemi d’animo: il danno morale è essenzialmente un sentire, il danno esistenziale è piuttosto un non fare, cioè un non poter più fare, un dover agire altrimenti, un relazionarsi diversamente.
Il danno non patrimoniale consiste nella lesione di un bene inidoneo a costituire oggetto di scambio e di quantificazione pecuniaria secondo le leggi di mercato ma che costituisce pur sempre un interesse direttamente protetto dall’ordinamento ed in quanto tale può affermarsi la sua natura di interesse rivestito di valore economico, alla stregua degli altri interessi immateriali tutelati; le conseguenze sono da considerarsi nella loro valenza economica anche se l’interesse leso, costituente il danno – evento, è di natura immateriale e non patrimoniale, spostandosi il baricentro della tutela risarcitoria dal contenuto del danno a quello della ingiustizia della lesione.
Ora, nel nostro ordinamento è ormai riconosciuta in via giurisprudenziale dottrinale la possibilità di risarcimento del danno non patrimoniale anche al di fuori del solo danno morale contemplato dall’art. 2059 c.c. e da altre disposizioni speciali di legge.
Oggi, infatti, la giurisprudenza, sia costituzionale che di legittimità (Corte costituzionale 11 luglio 2003, n. 233; Cassazione civile, sez. III, 31 maggio 2003, n. 8828), si è orientata verso una nozione ampia, costituzionalmente orientata, del danno non patrimoniale, esorbitante non solo da una visione penalistica (i casi di legge ormai riguardano in via maggioritaria fattispecie extrapenali), ma anche da una impostazione limitativa del risarcimento ai casi previsti dalla legge: nel perdurante vigore dell’art. 2059 c.c., si è ritenuto che, allorquando vengano in considerazione valori personali di rilievo costituzionale, deve escludersi che il risarcimento del danno non patrimoniale, ai sensi dell’art. 2059 c.c., sia soggetto al limite derivante dalla riserva di legge (tanto più se correlata all’art. 185 c.p.), e si è affermato che ciò che rileva, ai fini dell’ammissione a risarcimento, in riferimento all’art. 2059 c.c., è l’ingiusta lesione di un interesse alla persona, dal quale conseguano pregiudizi non suscettibili di valutazione economica, in quanto una lettura della norma costituzionalmente orientata impone di ritenere inoperante il detto limite, se la lesione ha riguardato valori della persona costituzionalmente garantiti. Risulta ormai anzi recepita la categoria del danno esistenziale che comprende qualsiasi danno non patrimoniale che l’individuo subisce alle attività realizzatici della propria persona (Cass. 7713/00).
Nel caso di specie, però, oltre a difettare il presupposto di un inadempimento colpevole (quale imprescindibile elemento costitutivo della struttura dell’illecito civile), mancando, per quanto detto, profili di responsabilità, non è stato in alcun modo provato che la qualità della vita dell’appellane sia peggiorata in ragione per effetto della perdita del diritto al pensionamento già dal 2004.
Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello proposto da L.M. deve essere integralmente rigettato. (Paolo Russo)
Il testo della sentenza è tratto da personaedanno.it