Ecco una sentenza successiva alle S.U., la quale si riferisce ad una fattispecie di risarcibilità del danno non patrimoniale prevista dal legislatore ordinario (danno da irragionevole durata del processo), la quale compie un opportuno rintuzzamento delle tesi settembrine riguardanti la serietà del danno.
Tra i tanti passaggi delle S.U. vi è, infatti, quello in cui si afferma che la gravità dell’offesa costituirebbe requisito ulteriore per l’ammissione a risarcimento del danno non patrimoniale; che la ferita procurata dal torto dovrebbe oltrepassare una certa (non meglio determinata) soglia minima, cagionando un pregiudizio (genericamente qualificato) serio. Il tutto da valutarsi alla luce di un criterio orientatore alquanto evanescente, costituito dal “grado minimo di tolleranza” che tutti i consociati dovrebbero-devono osservare.
Nella fattispecie alla base di quest’ultima decisione, la corte d’appello aveva escluso la configurabilità del danno non patrimoniale, in ragione – appunto – del modesto valore economico della pretesa azionata.
La I Sezione oppone, invece – e lo fa senza mezzi termini – che la consistenza della posta in gioco non fa la differenza, non crea cioè un muro divisorio tra accesso e non accesso alla riparazione del danno non patrimoniale.
E spiega: la sofferenza interiore (terminologia da utilizzarsi in omaggio alle indicazioni date dalle S.U.) si verifica normalmente (salva la prova che la vittima non abbia in realtà subito alcun effettivo pregiudizio) anche se il valore dell’interesse dibattuto sia modesto; elemento questo che potrà, piuttosto, incidere sulla determinazione del quantum debeatur.