Con questa sentenza della I Sezione, la Cassazione apporta un contributo utile a chiarire e – meglio – a ristabilire i corretti termini della vexata (per opera delle SU) quaestio dei danni “di poco conto”, futili e irrisori come li ha definiti testualmente la pronuncia dell’11 novembre. Alla base di quest’ultima decisione vi è una fattispecie di mancato riconoscimento dell’indennizzo richiesto per il danno derivato da un processo lumaca.
La Corte d’appello, in particolare, aveva rigettato la domanda riparatoria in considerazione del “modesto valore” della controversia, mentre, in sede di ricorso al supremo consesso, il plaintiff aveva opposto che tale circostanza avrebbe potuto incidere, tutt’al più, sul quantum del risarcimento.
In tal modo, invece, si era determinato un caso di denegata giustizia ed il diritto fondamentale salvaguardato dall’art. 2 della Legge 89/2001 ne era uscito calpestato e macilento.
Su tale punto, la I Sezione asseconda la censura del ricorrente, osservando come, pur dovendosi escludere la configurabilità di un danno non patrimoniale in re ipsa (allorchè venga disatteso il principio della durata ragionevole del processo), il verificarsi di un pregiudizio di natura sofferenziale debba darsi per (pressochè) scontato.
Il passaggio ancor più qualificante è, poi, quello in cui la I Sezione afferma che l’ indennizzabilità di tale pregiudizio non possa essere esclusa sulla base del rilievo dell’ esiguità della posta in gioco.
E, infatti – spiega la Corte – l’ansia e il patema d’animo conseguenti alla pendenza del processo si verificano anche nei giudizi in cui la posta in gioco è esigua.
Ecco, dunque, un esito affatto differente da quello annunciato dalle SU, e la riprova – al contempo – che la salvaguardia risarcitoria della persona viene realizzata, da parte delle stesse sezioni semplici della Cassazione, senza rigidi sbarramenti dettati dalla paura.
Come si sarebbero orientate, riguardo a tale fattispecie, le SU? Avrebbero disatteso quella prerogativa fondamentale della persona incontrovertibilmente fissata dalla legge Pinto e dall’art. 6 della Convenzione CEDU?
E lo avrebbero fatto in nome di quel dovere di tolleranza e di sopportazione che la pronuncia 26972 chiama in campo per mettere all’angolo i pregiudizi – a suo dire – irrisori e futili?
Ma – questa è la domanda centrale – sulla scorta di quale idea di giustizia dovrebbe concludersi che chi ha subito un processo rallentato sia chiamato a sopportare il disagio derivatone, e ciò soltanto in nome di un dovere di sopportazione e di pazienza dalla natura alquanto vaga?
Perché il cittadino che chiede giustizia per il pregiudizio determinato dalla P.A. dovrebbe votarsi al sacrificio, semplicemente perché il danno subito è, tutto sommato, di rilevanza modesta?
Qual è il pregiudizio serio? E quello futile? Potrebbe dirsi irrisorio il disagio di dover attendere anni prima di conoscere la sorte della propria domanda di giustizia? E per quale motivo, in casi del genere, le mancanze della p.a. dovrebbero gravare sul singolo cittadino?
Ora, se può convenirsi, in generale, circa l’ opportunità di un filtro, costituito dalla gravità dell’offesa e dalla serietà del pregiudizio (per usare le espressioni delle SU), è pur vero che le maglie di questo filtro andranno ristrette opportunamente fino a impedire l’accesso in area risarcibilità a quelle sole pretese risarcitorie che si rivelino del tutto frivole e platealmente inconsistenti e capricciose.
Ma non è certo il caso deciso dalla I Sezione, e ciò per due ragioni:
(i) innanzitutto perché ci si trova di fronte, qui, ad una ipotesi di interessi meritevoli di protezione e di conseguente risarcibilità del danno non patrimoniale contemplato espressamente dal legislatore ordinario (del resto, vi fa riferimento la stessa pronuncia 26972 nel passaggio dedicato all’ingiustizia di matrice legislativa ordinaria, a pag. 13);
(ii) e comunque perché il pregiudizio (sofferenziale/esistenziale) che consegue all’irragionevole durata del processo viene arrecato da una pubblica amministrazione sorda e noncurante. E in questo non può non ravvisarsi quell’elemento da qualificarsi in termini di dolo, o comunque, di tracotanza e protervia, in presenza del quale nessun perdono può essere accordato all’autore del torto.