Oggi parliamo di cure palliative negate. Qualche dubbio sul fatto che un paziente terminale ha diritto a vedere alleviato il dolore fisico degli ultimi giorni di vita? Qualche dubbio sul fatto che questo sia un diritto sacrosanto di rango costituzionale?
Eppure, ci sono ancora oggi medici che, invasati da chissà quale convincimento umano, morale o religioso negano al malato terminale di poter morire serenamente, preservandone la dignità.
Questo non succede nel Burundi, ma nella civilissima Bologna.
Il caso
Un caso del genere è stato deciso recentemente dal Tribunale di Bologna, che ha condannato il medico e l’Ospedale a risarcire gli eredi della vittima.
Il caso riguardava un uomo, paziente oncologico terminale, ricoverato a causa della comparsa di dispnea (difficoltà di respirazione) ingravescente da alcuni giorni. Al momento del ricovero, la condizione del malato non richiedeva un immediato trattamento palliativo. Dopo circa una settimana dall’ingresso in ospedale, il quadro clinico e dispnoico precipitava ma, ciò nonostante, nei due ultimi giorni di vita che seguivano, non venivano somministrati adeguati trattamenti palliativi. I familiari superstiti agivano dunque contro il medico e l’Ospedale, evidenziando -tra l’altro- che le cure palliative erano state negate dal medico primario intenzionalmente, sulla base di sue asserite convinzioni etiche.
L’accertamento peritale sulle sofferenze causate dalle mancate cure palliative
La necessità del supporto palliativo in quei due ultimi giorni di vita veniva attestata dal CTU: il paziente trascorreva quei due giorni in preda ad una sempre più grave difficoltà respiratoria, accompagnata da rilevante agitazione psicomotoria, supplicando a gesti di poter morire.
Il CTU concludeva che i sanitari bolognesi avevano violato le Linee Guida in materia con una evidente correlazione causale tra tale condotta e le sofferenze patite dal paziente.
La decisione
Il Giudice, preso atto delle conclusioni del perito, ricorda che la materia de trattamenti palliativi è oggi regolata dalla legge n. 38 del 2010, la quale obbliga le strutture sanitarie a prestare assistenza ai pazienti e ai loro familiari al fine di tutelare la dignità del malato e promuoverne la qualità della vita fino al suo termine.
I convenuti, di fronte all’evidenza di quanto sopra, tentavano di ridurre il costo di quella negligenza sostenendo che il danno non patrimoniale dovesse essere liquidato come se si fosse trattato di un mero danno biologico temporaneo di due giorni. “Niente di più errato” sbotta il Giudice, il quale osserva: “Tale lesione costituisce piuttosto un danno morale che trova la propria fonte, ancor prima che nell’ art. 32 Cost., nell’art. 2 cost. in quanto mira a risarcire la lesione alla dignità della persona conseguente alla sofferenza ingiusta subita nel periodo terminale della propria vita per non avere potuto usufruire dei trattamenti palliativi. Tale danno non può quindi essere fatto rientrare nella categoria del danno non patrimoniale biologico ma più correttamente va qualificato come danno morale conseguente alla sofferenza ingiusta patita nella fase terminale della vita”.
Il Giudice liquida, pertanto, il risarcimento spettante alla vedova e ai figli della vittima, applicando le Tabelle di Milano 2016, le quali – come noto – contengono anche una sezione dedicata alla stima del danno terminale. Vengono così liquidati 20.000,00= euro a fronte dei due giorni di indicibile sofferenza non fronteggiata dai sanitari.
Anche la vedova viene risarcita iure proprio, per il danno biologico riportato a causa delle sofferenze del coniuge cui la stessa aveva assistito impotente.
Una bella sentenza, da annoverare tra le prime pronunce in materia di danno da mancata somministrazione delle cure palliative, esemplare anche per avere tributato al dolore la giusta rilevanza, una rilevanza autonoma, indipendente cioè dalla sussistenza di un danno biologico.