La fattispecie affrontata in questa sentenza genovese è nuova, e la novità è costituita dall’ intreccio tra due momenti: da un lato, il progetto procreativo fino ad un certo punto condiviso dai due protagonisti; dall’altro, la relazione avviata dal convivente con altra donna proprio mentre la compagna stava seguendo le cure ormonali necessarie a consentire la fecondazione assistita.
Due situazioni – va subito detto – prive di qualsivoglia rilevanza per l’ordinamento privatistico, se considerate separatamente, l’una dall’altra.
E’ innegabile, infatti, che la relazione “clandestina” instaurata da uno dei conviventi non configura, giuridicamente, alcuna violazione significativa e, tanto meno, un illecito aquiliano (non sussistendo, peraltro, il vincolo coniugale), mentre le scelte e le vicissitudine relative al processo procreativo appartengono propriamente alla sfera di autodeterminazione della donna, dati i potenziali riflessi sulla salute di questa.
L’interesse, per il tortman, sorge tuttavia nel momento in cui tra le due vicende si realizza un intreccio, tale da potersi ritenere che l’esito dell’una (il progetto procreativo) dipenda dall’altra (la condivisione di esso da parte dell’altro convivente).
Così, nella specie l’attrice domandava il risarcimento del danno morale accusando l’ex convivente fedifrago di avere lasciato che la stessa proseguisse nella via della fecondazione assistita (implicante onerose stimolazioni ormonali, non prive di controindicazioni) nonostante dovesse essergli evidente che, qualora la stessa avesse saputo, avrebbe perciò stesso abbandonato il proposito di concepire un figlio. Per tale motivo, la donna chiedeva di essere risarcita del danno morale subito per tale condotta.
Il convenuto opponeva, dal canto suo, che il trattamento anti-sterilità era stato intrapreso per il forte desiderio di maternità della compagna e che, dunque, nessun addebito poteva essergli mosso.
La decisione è sfavorevole alle istanze di salvaguardia risarcitoria formulate dall’attrice, non ravvisando il giudice genovese né il danno lamentato, né – a monte – una condotta illecita. Decisione giusta o sbagliata?
Scorrendo la motivazione, a dire il vero, non si scorgono passaggi fuori posto, da un punto di vista logico-giuridico: il carattere antigiuridico della condotta viene escluso categoricamente considerando come la convivenza more uxorio sfugga, per sua natura, alle maglie dell’ordinamento, mentre è oramai assodato che anche nella realtà coniugale non vi è alcun automatismo tra adulterio e condotta a rilevanza aquiliana.
Ed il ragionamento, in effetti, non fa una piega.
Torniamo, però, per un attimo alla nota pronuncia della Cassazione, n. 9805/2005, alla cui base vi era la condotta di un ex fidanzato che aveva taciuto la propria incapacità sessuale alla promessa sposa, tanto che – ignara di tale impedimento alla futura procreazione – la giovane lo aveva sposato, scoprendo poi di non poter mettere al mondo un figlio.
Il matrimonio era stato annullato e, nonostante l’esito negativo dei primi due gradi di giudizio, le istanze risarcitorie della donna avevano, infine, ricevuto riconoscimento da parte del S.C.
Ebbene, il nesso con la nostra fattispecie sta nel fatto che la Cassazione ravvisò la condotta antigiuridica nella condotta del convenuto il quale – come fidanzato e dunque non ancora coniuge – aveva violato un dovere di correttezza e buona fede nei confronti della promessa sposa; dovere concretizzantesi nell’ informare la fidanzata dell’ esistenza di un ostacolo alla possibilità di procreazione; tanto che se la giovane lo avesse saputo, la stessa avrebbe potuto determinarsi diversamente.
Ecco, è possibile estendere analoghe considerazioni alla vicenda genovese?
Anche qui, nonostante un matrimonio non si fosse mai celebrato, vi era un progetto di vita (i due convivevano da dieci anni e, del tutto verosimilmente, avevano progettato insieme di avere un figlio, come può desumersi dal fatto che la strada della fecondazione assistita era stata intrapresa nell’ultimo periodo, quando cioè – è probabile – ogni tentativo era risultato infruttuoso).
Anche qui, ulteriore considerazione plausibile, se la donna avesse saputo del nuovo orizzonte sentimentale -affettivo del compagno, ci avrebbe pensato due volte prima di sottoporsi a cure defatiganti e impegnative; e anzi più che probabile che quel progetto sarebbe stato accantonato da parte sua. In definitiva, ecco il punto, anche qui è sostenibile che il convivente abbia agito fuori del canone della correttezza, non informando cioè la compagna dei propri nuovi progetti nel cassetto.
Ecco, dunque, una lente sotto cui avrebbe forse meritato di essere letta ed interpretata la vicenda; semprechè si riconosca – come del resto va mostrando la law in action – che la famiglia di fatto non sta così fuori dall’ordinamento.
Passando al profilo del danno, poi.
Anche qui, la decisione ligure è piuttosto categorica. Non c’è un danno (quand’anche vi fosse una condotta antigiuridica). E danno non c’è perchè i trattamenti cui la donna si era volontariamente sottoposta avevano finalità terapeutiche talchè non si potrebbe configurare un danno alla salute. Eppure, il profilo di danno lamentato, nella specie, non era quello biologico, ma un pregiudizio di natura morale, e – per quanto come tale non sia stato qualificato – un pregiudizio di natura esistenziale; un pregiudizio discendente dalla violazione di una prerogativa soggettiva della donna ben precisa, quella tutelata dagli artt. 2, 3 e 29 Cost., ovverossia il diritto a realizzarsi come madre, prerogativa – aggiungo – non necessariamente connessa con quella alla salute di cui all’art. 32 Cost. (v. ancora, Cass. n. 9801/2005, come pure la paradigmatica sentenza milanese del febbraio 2002).
Mi pare, dunque, doversi concludere per l’eccessiva perentorietà di questa esclusione così radicale: nessun illecito, nessun danno.
Ed è sufficiente considerare, passando al piano delle attività realizzatrici compromesse, il tempo impiegato nelle visite ripetute al centro per la fecondazione assistita, il tempo sottratto alle altre attività quotidiane, le speranze deluse, il senso di perdita inevitabilmente derivante dall’interruzione di quel percorso intrapreso.
Vi è sì nella sentenza un apprezzabile rimprovero morale per la condotta dell’uomo; un rimprovero che tuttavia – proprio perchè accompagna una decisione negativa – segna la distanza tra le istanze di protezione risarcitoria della persona e l’applicazione ortodossa delle regole giuridiche.
il testo della sentenza è tratto da personaedanno.it