Compiti dell’Ads in materia sanitaria

Scritto il 06 Maggio 2010 in Amministrazione di Sostegno

Cerchiamo di capire quali possono essere i compiti attribuibili all’amministratore di sostegno in materia di prestazione e negazione del consenso sanitario informato.
Le questioni che si propongono all’interprete sul terreno delle scelte sanitarie e bioetiche presentano un intreccio significativo con la disciplina dell’Amministrazione di sostegno.
E ciò in quanto, non di rado, le decisioni di natura medico-bioetica riguardano un soggetto debole, non in grado di orientarsi autonomamente e consapevolmente in tale ambito.

L’amministratore di sostegno può essere incaricato di esprimere il consenso informato sanitario? 

La prima questione concerne la possibilità di investitura dell’amministratore di sostegno sul terreno sanitario; si tratta, cioè, di vedere se il giudice tutelare possa attribuire all’ads il potere/compito di esprimere il consenso informato sanitario, in luogo del beneficiario o in affiancamento a questi.
Il problema può dirsi, oggigiorno, superato in senso affermativo, nonostante in passato si dubitasse di tale possibilità; e ciò in quanto – si diceva – la prestazione del consenso informato ad un intervento diagnostico o terapeutico ha natura personalissima, e come tale non può essere esercitato che dal diretto interessato.
Detta interpretazione restrittiva delle potenzialità di intervento della nuova misura di protezione si collegava, peraltro, all’idea preconcetta ed erronea che l’Ads costituisse una terza misura di protezione, più morbida rispetto all’interdizione e all’inabilitazione, dunque approntata per la cd. clientela leggera, e soltanto per essa; da qui, ulteriormente, la conclusione (anch’essa lontana dal vero) che l’Ads potesse presidiare gli interessi economico-patrimoniali del beneficiario, e non quelli attinenti alla cura personae.
L’ incarico dell’amministratore di sostegno può riguardare, dunque, la gestione sanitaria; ciò – beninteso – con tutte le cautele imposte dalla natura e delicatezza di tale genere di compiti.
Quand’è, dunque, che il giudice tutelare potrà demandare all’amministratore di sostegno il compito di prestare il consenso informato in luogo del diretto interessato (ovverossia, un potere di rappresentanza)?
La giurisprudenza è bene esplicita sul punto: ciò potrà avvenire soltanto quando risulti in modo evidente la mancanza nel soggetto di una cosciente valutazione critica della situazione sanitaria che lo riguarda (Trib. Modena, decr. g.t. 28 giugno 2004; Trib. Milano, 5 aprile 2007).
Che dire, però, del caso in cui la mancanza di consapevolezza e lucidità dell’interessato non risulti estesa a trecentosessanta gradi, e si presenti, per così dire, “a chiazze”, affliggendo taluni settori cognitivi e non altri?
Occorrerà verificare, allora, se le incapacità critiche circoscritte investano o meno l’area sanitaria (si veda, ancora, Trib. Modena, decr. g.t. 28 giugno 2004).

 

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Quando l’amministratore di sostegno viene incaricato riguardo alla prestazione del consenso informato, il beneficiario rimane privato della possibilità di prestare personalmente detto consenso alle cure? 

No, non è detto. Tutto dipende dal genere di poteri attribuiti dal giudice all’ads.
I poteri attribuiti potrebbero essere poteri di assistenza, e questa soluzione si addice ai casi in cui la situazione concreta escluda la necessità di un intervento sostitutivo.
Si pensi al caso in cui il beneficiario abbia la consapevolezza del proprio stato di salute e sia in grado di comprendere le informazioni dei medici riguardo alle cure da praticare, e tuttavia egli si senta insicuro o non sia in grado di comunicare la propria volontà.
Così, in un caso milanese, il giudice tutelare ha optato per il conferimento di compiti di mera assistenza nella prestazione del consenso sanitario, in un caso in cui era stata la stessa amministranda a chiederlo: l’ anziana donna, pur in grado di provvedere autonomamente ai propri interessi quotidiani, avvertiva una estrema difficoltà allorchè si trattava di decidere per la propria salute: “la stessa, assolutamente lucida e consapevole delle proprie capacità e dei propri limiti, ha chiesto la presente misura di protezione, non già in ambiti di natura economico-gestionale, per i quali riesce ad essere del tutto autonoma, ma unicamente per aspetti di natura personale, avendo sperimentato la difficoltà di trovarsi ricoverata in condizioni di momentanea agitazione e confusione (a seguito di patologia acuta) e di non sentirsi in grado di assumere autonomamente valide decisioni di natura sanitaria di fronte alle proposte terapeutiche” (Trib. Milano, decr. 21 giugno 2006).
Altro esempio significativo in tal senso, si trova in Trib. Varese, decr. 10 marzo 2010).

L’ amministratore di sostegno può essere autorizzato a negare il consenso informato sanitario?

La questione ha fatto discutere. Ad ogni modo, tale possibilità può dirsi ammessa dalla previsione dell’art. 408 comma II c.c. che contempla la designazione anticipata dell’amministratore di sostegno; nulla esclude, infatti, che all’atto stesso della designazione anticipata, l’interessato detti disposizioni concernenti anche il contenuto delle future scelte sanitarie e bioetiche da demandare all’amministratore nominando.
Si tratta di una problematica portata inizialmente all’attenzione dei giudici tutelari specie dai testimoni di Geova; questi, in virtù delle proprie convinzioni religiose rifiutano emotrasfusioni, e vorrebbero essere certi che nell’ eventualità futura della propria incapacità di intendere e di volere, il loro rappresentante designato possa validamente negare il consenso a trattamenti salvifici.
Paradigmatici i provvedimenti emiliani dell’estate 2008, i quali hanno accolto la soluzioen favorevole: Trib. Modena, 13 maggio 2008, Trib. Bologna, 4 giugno 2008, e Trib. Modena, 16 settembre 2008.
Di contrario avviso, invece, Trib. Genova, 6 marzo 2009, che ha escluso la possibilità di attribuire all’amministratore il compito di negare il consenso informato; e ciò nonostante la domanda in tal senso fosse stata formulata da una paziente cardiaca per la quale si poneva la necessità di praticare una trasfusione di sangue, dalla stessa espressamente e documentalmente rifiutata quando ancora era lucida e consapevole.