Caso del piccolo Devid: la paura alla base del silenzio

Scritto il 12 Gennaio 2011 in Diritto di Famiglia

Come ben noto, in questa nostra Italia i problemi divengono di interesse collettivo soltanto quando si verifica un fatto drammatico, con la morte di una persona, e ancor di più se la vittima è un bambino. Viviamo, del resto, nel Paese dei “buoni” sentimenti, meno celebre per la bontà dell’organizzazione e dei servizi pubblici.

Eppure, quante volte, sui blog, in vari siti internet, e negli atti giudiziari si lamentano le carenze dei servizi sociali, le disfunzioni della giustizia minorile, i rischi e i problemi che così spesso (troppo spesso) nascono dal connubio istituzionale/operativo tra giudici minorili e servizi socio-assistenziali.

Un connubio sfociato non di rado in iniziative di allontanamento dei minori dalla famiglia d’origine assunte in meno di 48 ore: una segnalazione trasmessa dagli operatori alla Procura; una richiesta di limitazione della potestà genitoriale con collocazione etero-familiare dei bambini, trasmessa dalla Procura al secondo piano del palazzo di Via del Pratello; e, terzo passaggio, il provvedimento subito conseguente, acritico, motivato succintamente che dispone l’allontanamento.

Poi si vedrà, ma passano i mesi e gli anni senza che la famiglia torni a vivere unita (quante volte le numerosissime associazioni familiari lo hanno denunciato).

Oggi, dopo la tragedia del piccolo di Bologna, sembrerebbe quasi che l’idillio tra servizi e giudici sia destinato a finire: “il neonato doveva essere protetto”; “La Procura dei minori striglia il Comune: ci sono strumenti per intervenire, non ci hanno detto nulla” (così L’Informazione del 12 gennaio).
 

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Il Comune, dal canto suo, nella persona del Commissario: “E’ una tragedia nata da tanti fattori, soprattutto dall’ignoranza e dalla paura. I genitori avevano paura, e il padre lo ha anche dichiarato, che i bambini gli venissero sottratti. Quindi hanno fatto tutto quello che potevano per non frasi seguire”; e così via, di questo passo.

Ed ecco svelato l’arcano: quei genitori temevano che – come già avvenuto per altri due loro figli – le autorità procedessero ad allontanare i due gemellini più piccoli dalla famiglia. Non posso entrare nel merito di una vicenda che non conosco nello specifico, ma se ciò che si legge nei giornali corrisponde al vero, il nodo della questione si svela in tutta la sua drammaticità: la paura di azioni di forza, cui i servizi e i nostri giudici minorili sono fin troppo abituati.

Eppure, c’è un articolo della l. adozioni, esattamente l’art. 1, che, dopo avere sancito il diritto del minore a crescere nella propria famiglia, recita testualmente: “Le condizioni di indigenza dei genitori non possono essere di ostacolo all’esercizio del diritto del minore alla propria famiglia. A tal fine a favore della famiglia sono disposti interventi di sostegno e di aiuto”.

L’allontanamento dai genitori è, invece, previsto come misura estrema, da attuare soltanto allorchè gli interventi di sostegno e di aiuto non abbiano funzionato.

Il fatto è, purtroppo, che questo passaggio viene tante volte dimenticato, sottovalutato, e si passa direttamente dalla segnalazione all’affidamento etero-familiare.

Da qui la paura dei genitori – sentimento umano e comprensibile – di perdere i propri figli: se al contrario essi sapessero di poter affidarsi fiduciosamente a servizi e ad istituzioni che vanno concretamente loro in aiuto, cercando una casa adeguata, fornendo sussidi, e via dicendo, probabilmente i sotterfugi e i silenzi finirebbero.

Ecco il grande vuoto dell’attuale sistema di welfare: al di là delle colpe, è tempo che le cose comincino a cambiare.