Il tribunale di Pisa (decisione del 14 agosto 2009, pubblicata su Juris Data Giuffrè) ha condannato una madre a versare 1.500,00 euro alla Cassa delle Ammende, come sanzione per avere accusato il padre di abuso sessuale sulla figlioletta di appena quattro anni, per averlo quindi escluso da ogni contatto con la bambina, e per avere sottoposto la piccola ad un accertamento ginecologico invasivo e traumatizzante.
Il tribunale riconosce l’illegittimità e gravità della condotta materna, contrastante con le regole dell’affidamento condiviso; ma si limita alla condanna suindicata; si rende conto, comunque, che la sanzione irrogata è lieve e – allora – azzarda una motivazione, spiegando che in astratto è possibile che le accuse della donna si rivelino fondate.
Ma questa – ecco il mio pensiero – è una valutazione da farsi a posteriori, anche perchè nulla imepdirebbe di revocare la condanna precedentemente inflitta.
Il giudice, in altri termini, avrebbe potuto condannare la madre al risarcimento del danno in favore sia della figlia sia del coniuge, così come prevede la legge (art. 709 ter c.p.c.); quindi, a seguire, qualora fosse risultata la responsabilità del padre per gli abusi, avrebbe potuto revocare la condanna, riversandola (anche in termini maggiormente sanzionatori) contro l’uomo.
Così, invece, si è finito con l’attribuire una sorta di verisimiglianza di partenza all’accusa di abuso, oltrechè al grave comportamento consistito nell’interruzione di ogni contatto tra padre e figlia; per non dire della mancata risposta al pregiudizio subito dalla bambina a causa dell’accertamento sanitario cui la piccola è stata obbligata.
Se lo scopo degli strumenti previsti dall’art. 709 ter c.p.c. è quello di scongiurare le cattive condotte genitoriali, è assai dubbio che tale obiettivo possa essere realizzato con scelte applicative troppo blande.