L’avvocato del diavolo

Scritto il 17 Agosto 2013 in Diritti della persona

E’ morto Jacques Vergès; è morto nella sua casa di Parigi, la sera di ferragosto, proprio quando il calendario obbliga al riposo anche gli infaticabili.

Lo chiamavano ‘l’avvocato del diavolo‘ e forse questo appellativo non certo disonorevole per lui continuerà a contraddistinguerlo negli annali degli avvocati storici.

Eppure, la sua forza e la sua originalità non stanno tanto nell’ avere difeso gli indifendibili, come dittatori, criminali nazisti, terroristi (del resto, negli ordinamenti democratici il diritto di difesa è garantito a chiunque e dunque non c’è nulla di strano in un avvocato che assume la difesa di un indifendibile) ma nello stile difensivo, definito efficacemente in un articolo apparso oggi sul Corriere della Sera “difesa di rottura“: “Non si limitava ad invocare le circostanze attenuanti a favore del suo cliente: lui partiva all’attacco, contestava la legittimità morale del tribunale – sfiorando continuamente l’oltraggio alla Corte – e opponeva ai valori dei giudici quelli dell’imputato. Chiunque altro ne sarebbe uscito a pezzi, non Vergès: coltissimo, intelligente, competente, è riuscito a trasformare ogni grande processo – su tutti quello al boia di Lione Klaus Barbie, negli anni Ottanta, in una requisitoria contro la Francia, le sue ipocrisie, e soprattutto i suoi crimini coloniali. Il nazista aveva torturato? non faceva che ispirarsi ai metodi dei dominatori francesi in Africa e in Asia (…)”.

 

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Difesa di rottura, dunque. Quale insegnamento, se un insegnamento possiamo trarne?
Io credo – rimanendo beninteso nella nostra realtà giudiziaria che (specie per un avvocato civilista) non è fatta di processi contro criminali – io credo che l’esempio da trarre sia il coraggio di osare e andare contro là dove occorra: sì, anche nelle aule giudiziarie, anzi proprio lì, nei luoghi in cui spesso si decidono le sorti familiari, economiche, esistenziali dei propri assistiti.

Non mancano, infatti, uffici giudiziari in cui – durante l’udienza – si respira un’aura di superficialità, supponenza, disvalore del ruolo dell’avvocato e, soprattutto, di disinteresse per le ragioni e i valori delle parti.
Il peggio è che non sempre l’avvocato reagisce a tale stato di cose, e temendo per l’esito della causa, accetta passivamente (mordendosi il labbro) di tenere un profilo basso, che a dire il vero non si addice proprio ad un avvocato.
Arretrare sulle proprie posizioni di partenza come pure tacere, vuol dire, d’altronde, rinunciare alla propria funzione, accettare che il proprio ruolo venga sottovalutato e svilito, con buona pace – in questo caso sì – per le ragioni del proprio assistito.

Ecco, in definitiva, Vergès ci lascia questo: potremo adempiere il mandato ricevuto con forte partecipazione emotiva o con distacco professionale (come si dice), entrare nell’aula del giudice in punta di piedi o con fare sicuro. Ma, non potremo mai dimenticare che a noi spetta condurre la partita senza ipocrisie, avendo scelto di difendere quella posizione, e risoluti allora nelle nostre parole, ben saldi nella coscienza del nostro valore, disposti anche – e perchè no – a fare l’ ‘avvocato del diavolo’.