Un provvedimento apparentemente erudito e colto, anche sotto il profilo delle conoscenze in campo clinico; eppure, chiuso, anti-storico, ostile.
Capire le ragioni di un simile atteggiamento credo non sarà possibile; in fondo, non è mai possibile comprendere le ragioni della predilezione – laddove vi sia – per l’interdizione rispetto all’amministrazione di sostegno.
Se ne è parlato tanto ai convegni: la sola risposta in cui ci si imbatte è sempre e solo questa: “in certi casi, l’interdizione protegge di più“. Il perché protegga di più è, invece, un quesito destinato a rimanere senza risposta.
Stesso ritornello nel decreto in commento: “l’amministrazione di sostegno non appare adeguata al caso di specie, non potendo trovare applicazione nelle ipotesi di Stato Vegetativo e nelle ipotesi di coma, posto che la misura più idonea, in tali casi, è l’interdizione”. Affermazione tautologica, ridondante, vuota di un vero contenuto che valga a spiegare perché.
Ma leggiamo anche di peggio, e – francamente – dopo gli innumerevoli dibattiti di questi sei anni, e le tante osservazioni scritte al riguardo, non ci aspettavamo di leggere, così sfacciatamente nero su bianco, che l’interdizione non si traduce nell’apporre un marchio a tali soggetti, dato che questi – i soggetti in coma e in SVP – non hanno neanche modo di percepire la misura applicata !!!
Dato che non comprendono, possiamo esautorarli, allora, della loro dignità di esseri umani, non c’è problema, tanto sono immersi in un sonno profondo e forse irreversibile.
Conoscevo una signora in campagna dove vivevo da bambina, che uccideva i gatti appena nati, quando ancora erano ciechi, perché era l’unico modo per controllare le nascite feline; bisognava farlo in quel momento o mai più perché poi soffrivano. Lei andava in giro con il segno distintivo di protettrice degli animali; a suo modo, dunque, li proteggeva quei gattini, ma li proteggeva mettendoli dentro un sacco ed annegandoli.
Per attenerci ad un piano di valutazione prettamente giuridica, passo allora alle seguenti osservazioni:
(a) il provvedimento riferisce del contrasto di giurisprudenza tra detrattori e sostenitori dell’Ads per i soggetti in coma e in stato vegetativo permanente.
A dire il vero, appare alquanto azzardato parlare di contrasto (quali le pronunce che attesterebbero il primo orientamento?), dato che gli esempi applicativi al riguardo mostrano una chiara propensione per il presidio di nuovo stampo, anche riguardo ai soggetti in coma.
(b) l’applicazione fedele del principio espresso da Cass. n. 13584 del 2006 (che il giudice tutelare varesotto afferma di condividere) indurrebbe a dover escludere l’adeguatezza dell’AdS rispetto a soggetti in SVP o coma.
E ciò in quanto:
(b.1.) il beneficiario dell’AdS conserva la cd. contrattualità minima, secondo la previsione dell’art. 409 co II c.c.
Rispolveriamo, allora, la disposizione richiamata: “Il beneficiario dell’amministrazione di sostegno può in ogni caso compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana”. Il beneficiario “può” non “deve”, il chè vuol dire che anche il soggetto in coma o in SVP – se fosse naturalmente in grado di farlo – potrebbe compiere gli atti minimi; il non compierli dipende dalla condizione clinica in cui egli versa.
La previsione normativa non può allora essere fraintesa fino al punto da ritenere che se la persona non è in grado di compiere siffatti atti elementari, allora, per questo motivo, va interdetta non potendosi fare luogo all’AdS. Ragionare in questo modo significherebbe aderire ad una lettura vuota e formalistica della legge n. 6.
(b.2.) si tratta di gestire un incarico complesso, in una molteplicità di direzioni; il rappresentante della persona in SVP, infatti, è chiamato a porre in essere ogni genere di attività (vuoi di gestione del patrimonio, vuoi di cura della persona). In pratica, l’AdS potrebbe andare bene per l’espletamento di taluni, ma non di tutti i compiti gestori inerenti la persona protetta.
Se le cose stanno a questo modo (come afferma il g.t. di Varese), che cosa ha inteso dire, allora, la Cassazione? Che Ads equivale ad investitura parziale del vicario, limitata a taluni compiti soltanto, mentre interdizione significa mandato a tutto campo, esteso a 360° ?
Ora, a prescindere dal fatto che l’istituto delle tutele ha dato prova (da chè è entrato in vigore fino ai giorni nostri) della pressochè totale inadeguatezza riguardo al presidio della cura personae, la distinzione di cui sopra appare priva di logica.
Basti considerare quante altre siano, rispetto alla condizione della persona in coma, le situazioni in cui si impone un intervento vicariale esteso a 360°, coincidenti, in definitiva, con le forme più severe di disabilità psichica; quelle, per intenderci, che nel vecchio sistema conducevano alla pronuncia di interdizione.
Nulla di nuovo, dunque. Così ragionando, si continuerebbe ad amministrare la clientela pesante con la misura mortificatoria dell’interdizione, lasciando le situazioni leggere all’AdS.
Sappiamo quanta poca fortuna abbia avuto tale iniziale (ma da tempo accantonata) lettura limitativa del nuovo istituto !
(b.3.) se l’amministrazione di sostegno risulti inadeguata in concreto, il giudice può non applicarla.
D’accordo, osservo io, ma il punto è che non ci viene detto in alcun modo per quale ragione – nella specie – l’AdS non risulterebbe adeguata.
(c) Forse consapevole di non avere convinto con i rappresentati argomenti, il giudice lombardo puntualizza di non essere affatto ignaro della recente pronuncia di legittimità n. 9628/2009; ma – mette in guardia – la condizione per la quale la S.C. ha escluso potersi far luogo ad interdizione era diversa da quella che ci occupa. In quest’ ultima, si sarebbe reciso totalmente e definitivamente ogni contatto tra l’incapace e il mondo esterno, mentre nel caso del disabile psichico, si verserebbe in una condizione di male habitus.
In pratica – dovremmo concludere – per il disabile psichico no all’interdizione, la quale invece dovrebbe continuare ad imperare per chi versi in condizione di coma. Quale la logica, il senso di tale differenziazione?
(d) La rilevanza del consenso, infine. La Corte Costituzionale con la sentenza n. 4 del 2007 ha assegnato precipuo ruolo al consenso/dissenso dell’amministrando, imponendo al g.t. di prendere atto della volontà di questi. E dunque che la volontà dell’interessato debba sussistere per farsi luogo ad AdS diviene un dato imprescindibile.
Nessun dubbio sul fatto che la volontà e le aspirazioni del beneficiario siano (debbano essere) al centro della considerazione del giudice. Nessun dubbio, di conseguenza, che il consenso/dissenso del destinatario della protezione sia un elemento da non sottovalutare, in ogni caso, anche ai fini cioè dell’attivazione dell’AdS.
Questo, però, non significa che se quella volontà manchi o se manchi comunque la possibilità/capacità di esternarla si debba rinunciare alla migliore protezione possibile, ovverossia quella non mortificatoria.
(e) E arriviamo alla chiusura della motivazione, originale e ottimista, a dire il vero. L’interdizione merita una riabilitazione concettuale, essendo essa, come l’amministrazione di sostegno, una misura di protezione della persona. Occorre, allora, accantonare la concezione di essa quale elemento di disistima sociale.
Tali e tanti sono i problemi e le disfunzioni che si ricollegano al regime della tutela, che non è possibile qui elencarli. Ma, si tratta di realtà sotto gli occhi di tutti: disabili, loro familiari, avvocati, assistenti sociali, giudici attenti e sensibili.
E’ però comprensibile la preoccupazione di questo giudice tutelare di alleggerire un poco il carico di tutte le argomentazioni svolte. Il proposito di snaturare nella sostanza l’interdizione, in fondo è apprezzabile. E’ un’idea condivisibile, ma difficile farlo continuandosi a far luogo all’interdizione.
“Le idee non sono di nessuno, volano lì in giro come gli angeli” – dice un personaggi del romanzo di G.G. Marquez “Dell’amore e di altri demoni”. Anche l’idea che l’interdizione non sia la migliore delle nostre realtà, aleggia tra noi; afferrarla è un attimo.