Interdizione. Il sonno della ragione genera mostri

Scritto il 28 Ottobre 2009 in Amministrazione di Sostegno Dc-Interdizione e Inabilitazione

Presso taluni uffici giudiziari bisognerebbe affiggere la nota acquaforte di Goya, affidando così alle immagini figurate la rappresentazione del sonno della ragione che li opprime.
Cos’altro concludere dopo avere letto decisioni come questa che pubblichiamo? Una sentenza che, se non fosse per la data di pubblicazione che porta (28 ottobre 2009), sarebbe da catalogare nei repertori – in questa materia anacronistici – degli anni ’80/’90, appartenendo “anima e corpo” ad un filone interpretativo di vecchio corso, oramai da tempo abbandonato.
Si noti, del resto, che viene insistentemente invocata copiosa giurisprudenza di quegli anni (del tutto inutile e fuori luogo oggigiorno) nella quale si ribadisce che il presupposto per la pronuncia di interdizione è l’abituale infermità di mente; e a quale pro, se non per far convergere tutto il percorso argomentativo verso la conclusione della ineluttabilità della decisione di interdire? Ma, come evidente, con un salto logico di non poco conto: quello che è il presupposto dell’interdizione – ossia l’abituale infermità di mente – viene infatti trasformato in una condizione esistenziale tale da condurre ineluttabilmente all’ interdizione: “può affermarsi in conclusione che XX versi in uno stato di infermità abituale di mente tale da renderla totalmente incapace di intendere e di volere e di provvedere ai propri interessi e che tale status legittimi la dichiarazione di interdizione, ai sensi dell’art. 414 c.c., come richiesto dal ricorrente e dal P.M.”.

Una vecchia sentenza, da cestinare dunque, e chissà come mai qualcuno vi ha stampigliato sopra la data del 28 ottobre 2009 !? Ma, scorrendo un po’ oltre, nella motivazione, compare un riferimento alla legge 6 del 2004, e, poi, ancora, alle pronunce (ormai storiche) che hanno fissato il discrimen tra interdizione e amministrazione di sostegno: la n. 550 del 2004 della Consulta, e la 9628/2009 della Cassazione, in particolare. Di quest’ultima viene peraltro riportato un intero brano, quello da cui si ricava in modo chiaro quale debba essere il nuovo corso applicativo.
L’ accoglienza riservata a detta ultima pronuncia di legittimità, però, non è delle più ossequiose, ciò che si coglie nonostante l’abile scelta tecnico/stilistica del “guanto di velluto”: “In maniera ancora più invasiva – leggiamo – la giurisprudenza di merito (cfr. Tribunale Venezia 12 settembre 2005, depositata 13 ottobre 2005), valorizzando fino all’estremo limite i principi costituzionali del personalismo e solidarismo (…)”. Come dire, dunque, che la Cassazione -seppure in maniera meno invasiva – ha fatto lo stesso.

Di nuovo, a seguire, un salto all’indietro nella storia, allorquando la riforma sull’AdS muoveva i primi passi e uno schieramento (minoritario) della giurisprudenza andava affermando che la nuova misura di protezione era strumento attivabile per la clientela cd. leggera, quella che fino ad allora non aveva trovato alcun presidio; quella pesante, al contrario, continuava a fare capo all’interdizione (e all’inabilitazione); e da qui l’idea che per attivare l’AdS occorresse, inevitabilmente, il riscontro, in capo all’amministrando, di una quota di capacità cognitiva, mancando la quale il destino continuava ad essere quello del rifiuto e dello stigma.
Un ultimo aspetto da sottolineare, un’ultima bizzarria: la persona interdetta, un’anziana donna affetta da morbo di Alzheimer, con limitate necessità gestionali, aveva ottenuto la nomina dell’amministratore di sostegno, grazie alla decisione resa dalla Corte d’Appello su reclamo (il ricorso inziale, infatti, era stato rigettato dal giudice tutelare e da qui il tutto si era incanalato sulla via dell’interdizione). La soluzione accolta dai giudici d’appello viene contrastata dal collegio di Trani, dato che – questa in sintesi la motivazione – la necessità di sostituire totalmente l’amministrata in tutti gli atti giuridici avrebbe imposto l’intervento continuo e prevaricante dell’amministratore su ogni aspetto della sua vita. E, dunque, per non prevaricare, è bene interdire!
Resta il fatto che le due decisioni sono incompatibili, o meglio quella del tribunale lo è con la precedente della corte d’appello. Il groviglio ai processualisti, ma – mi sento di poter dire – sussistono ben valide ragioni atte a fondare la riforma di questa pronuncia.

 

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