(Cass. 15 settembre 2008, n. 23676)
E’ difficile dare di questa sentenza un giudizio univoco, tutto bianco o tutto nero; essa, infatti, presenta – sotto taluni profili – un carattere chiaroscurale: equilibrio e assonanza, da un lato, con i valori sanciti nella Carta costituzionale; sbilanciamento – d’altra parte – rispetto a questi ultimi, in merito alla interpretazione della fattispecie concreta.
Per meglio dire. La decisione ha riproposto – ecco la parte apprezzabile – i criteri orientatori in materia di prestazione/negazione del consenso informato sanitario, desumibili direttamente dalla Costituzione, e già affermati (seppure con riferimento specifico a fattispecie di sospensione di trattamenti vitali) dalla pronuncia della I Sezione, n. 21748/2007, relativa al caso Englaro.
Vediamoli, allora:
(i) in primo luogo, “va riconosciuto al paziente un vero e proprio diritto di non curarsi, anche se tale condotta lo esponga al rischio stesso della vita“.
E’ quanto già aveva anticipato la Cassazione, con l’ ordinanza 20 aprile 2005, n. 8291: “la libertà di rifiutare le cure presuppone il ricorso a valutazioni della vita e della morte, che trovano il loro fondamento in concezioni di natura etica o religiosa, e comunque (anche) extragiuridiche, quindi squisitamente soggettive“;
(ii) di conseguenza, “il conflitto tra due beni – entrambi costituzionalmente tutelati – della salute e della libertà di coscienza non può essere risolto sic et simpliciter a favore del primo, sicché ogni ipotesi di emotrasfusione obbligatoria diverrebbe per ciò solo illegittima perché in violazione delle norme costituzionali sulla libertà di coscienza e della incoercibilità dei trattamenti sanitari individuali“. Nulla da obiettare.
(iii) “Nell’ipotesi di pericolo grave ed immediato per la vita del paziente, il dissenso del medesimo deve essere oggetto di manifestazione espressa, inequivoca, attuale, informata“.
Da condividere anche questa sequenza di aggettivazioni, trattandosi di caratteristiche di base per la manifestazione di un valido consenso sanitario;
(iv) proseguendo, ancora: allorchè il paziente, portatore di forti convinzioni etico-religiose (come è appunto il caso dei testimoni di Geova) si trovi in stato di incoscienza, la manifestazione del ‘non consenso’ potrà ritenersi valida soltanto se proveniente direttamente da “una articolata, puntuale, espressa dichiarazione dalla quale inequivocamente emerga la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita“, ovvero da “un diverso soggetto da lui stesso indicato quale rappresentante ad acta il quale, dimostrata l’esistenza del proprio potere rappresentativo in parte qua, confermi tale dissenso all’esito della ricevuta informazione da parte dei sanitari”.
Le situazioni così delineate possono riunirsi nella fattispecie delle “dichiarazioni anticipate di volontà“; e, per l’esattezza, la seconda fattispecie rimanda all’istituto, contemplato dal II comma dell’art. 408 c.c., della ‘designazione anticipata’, di cui hanno fatto applicazione alcuni recenti provvedimenti emiliani: (Trib. Bologna, 4 giugno 2008; Trib. Modena, 13 maggio 2008).
Perplessità sorgono, invece (e come anticipato), a proposito dell’interpretazione della fattispecie concreta esaminata, in cui il paziente – testimone di Geova – ricoverato in stato di incoscienza, e bisognoso di trasfusioni, recava con sé un cartellino con la scritta lapidaria: ‘niente sangue’.
Secondo la S.C. i caratteri che una dichiarazione anticipata di volontà deve possedere per essere considerata valida ed efficace, quelli – per intenderci – sopra descritti (espressa, inequivoca, attuale, informata) non sarebbero ravvisabili in un cartellino di quella specie.
Il nodo della questione è, allora, il seguente: può condividersi l’affermazione per cui il rifiuto attuale (quello che la decisione in commento definisce ex post) non può desumersi da una dichiarazione pur sintetica, ma che il paziente ha avuto cura di predisporre e di tenere a portata di mano, in modo che non vi fossero dubbi sulla sua volontà, all’occorrenza?
Un nodo complesso e delicato, non c’è che dire.
Qual è, allora, l’elemento discretivo, quello – insomma – che fa la differenza, tra un cartellino predisposto a suo tempo, ma che il paziente ha portato con sé (programmando, verosimilmente, una risposta inequivoca per l’eventualità della propria incapacità di autodeterminarsi in un momento futuro) e una dichiarazione scritta e articolata?
Questione di lana caprina, potrebbe obiettarsi, dato che – in entrambi i casi – non verrebbe meno il rischio ventilato (dalla stessa III Sezione) di una possibile autodeterminazione di segno opposto allorchè il paziente si trovi in pericolo di vita.
Eppure, proprio su questa differenziazione – ovverosia sulla differente struttura e consistenza dei due generi di dichiarazioni di volontà – la Cassazione ha ritenuto di tracciare il criterio guida, per il giudice; così negando il carattere della attualità alla volontà espressa tramite quel cartellino.
Certo, nessuna superficialità è consentita quando c’è di mezzo la salute, anzi, la permanenza in vita della persona; e un cartellino è forse troppo poco per rassicurare in proposito.
Occorrerebbe, però, riflettere ancora sul significato di quelle due parole, così concise ma penetranti: “niente sangue” suona come un ordine secco e perentorio e – credo – su questo sarebbe difficile obiettare, allorchè – beninteso – quella disposizione provenga da chi sia portatore di convinzioni etiche radicate in una certa direzione.
Mi sorge spontaneo considerare, dunque, che se il paziente non fosse stato così profondamente convinto circa il da farsi all’occorrenza, con tutta probabilità non avrebbe pensato di predisporre quel cartellino e di portarlo con sé. Vedrei in quell’espressione, così acuta e forte, la preoccupazione di lanciare un messaggio inequivoco: non abbiate tentennamenti, né riserve: niente sangue!
Cosa concludere, allora? Che la sopravvivenza della persona in stato di incoscienza dovrà farsi dipendere – più opportunamente – dalla ricerca della sua volontà presunta. E tale ricerca andrà condotta sulla base dei criteri limpidamente additati dalla Cassazione stessa, con la precedente sentenza n. 21748: “la ricerca della presunta volontà della persona in stato di incoscienza – ricostruita, alla stregua di chiari, univoci e convincenti elementi di prova, non solo alla luce dei precedenti desideri e dichiarazioni dell’interessato, ma anche sulla base dello stile e del carattere della sua vita, del suo senso dell’integrità e dei suoi interessi critici e di esperienza – assicura che la scelta in questione non sia espressione del giudizio sulla qualità della vita proprio del rappresentante, ancorchè appartenente alla stessa cerchia familiare del rappresentato, e che non sia in alcun modo condizionata dalla particolare gravosità della situazione, ma sia rivolta, esclusivamente, a dare sostanza e coerenza all’identità complessiva del paziente e al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona. Il tutore ha quindi il compito di completare questa identità complessiva della vita del paziente, ricostruendo la decisione ipotetica che egli avrebbe assunto ove fosse stato capace; e, in questo compito, umano prima che giuridico, non deve ignorare il passato dello stesso malato, onde far emergere e rappresentare al giudice la sua autentica e più genuina voce”.
Questo, in definitiva, il must per il rappresentante – sia esso (in denegata ipotesi) il tutore, o (come dovrebbe sempre avvenire) l’amministratore di sostegno – cui il giudice affidi il delicato compito di rappresentare la volontà dell’interessato, in campo medico e bioetico.