Un fumatore evocava in giudizio davanti al G.d.P. una compagnia produttrice di sigarette perchè fosse condannata al risarcimento dei danni derivanti dalla ingannevolezza del messaggio “light”.
Il fumatore, infatti, era passato da un tipo di sigarette ad un tipo più leggero nella convinzione che fossero meno nocive al punto che egli aveva raddoppiato il consumo del prodotto.
Nel giudizio interveniva un terzo proponendo la medesima domanda.
Il G.d.P. considerava l’attività di produzione e commercializzazione di sigarette attività pericolosa ai sensi dell’art. 2050 c.c. e la dicitura “light” ingannevole per un consumatore medio.
Pertanto, condannava la convenuta al risarcimento di € 770 (giudizio secondo equità) nei confronti dell’attore e dell’interveniente per perdita della chance di scegliere liberamente una soluzione alternativa e per il danno esistenziale. La società proponeva ricorso per cassazione.
La Corte di Cassazione inquadra la fattispecie nella responsabilità per attività pericolosa e nella produzione/vendita di prodotti da fumo:
1) l’orientamento di legittimità dominante sostiene che è “pericolosa ogni attività che abbia una pericolosità intrinseca”, a prescindere da una qualificazione legislativa;
2) l’attività è, quindi, pericolosa quando dall’esercizio dell’attività deriva un’elevata probabilità o una notevole potenzialità dannosa, superiori alla media e rilevate attraverso dati statistici ed elementi tecnici e di comune esperienza.
3) Se l’attività diffonde pericolo e l’attività è finalizzata al consumo, tale attività è per sua natura pericolosa soprattutto in casi come questo in cui il prodotto viene realizzato con quella potenzialità per l’uso normale di esso.
4) Per interpretazione estensiva, la pericolosità ai sensi dell’art. 2050 c.c. è anche quella del bene finale.
5) La conoscenza del rischio e della pericolosità del prodotto (sigaretta) non esclude la responsabilità del produttore.
6) L’apposizione di un messaggio pubblicitario ingannevole come la dicitura “Light” è idonea a produrre un danno ingiusto.
7) Non c’è concorso di colpa del fumatore ex art. 1227 c.c. perchè non c’è assunzione di rischio da parte del danneggiato come nei casi di fumo passivo: si tratta del danno subito da un soggetto che riteneva di ridurre il rischio di danno (pubblicità ingannevole).
8) Il danno non patrimoniale non è risarcibile nel caso di specie perchè il danno da pubblicità ingannevole è tutelato in Costituzione all’ art. 41, norma che appartiene alla sfera dei rapporti economici e non dei diritti inviolabili della persona.
Infine, la Corte dopo aver sancito che la produzione e vendita di tabacchi lavorati integrano un’attività pericolosa, accoglie parzialmente il ricorso perchè il danneggiato ha proposto un’azione ex art. 2043 e non un’azione ex art. 2050 c.c. come più appropriato.
“Infatti ove l’attività considerata sia quella delle produzione finalizzata al commercio e quindi all’uso da parte del consumatore, e ovvio che, se quell’attività sostanzialmente diffonde nel pubblico un rilevante pericolo, tale attività debba per sua natura definirsi pericolosa, tanto più se il pericolo invocato sia quello conseguente all’uso tipico e normale di quel prodotto e non ad un uso anomalo.”
(…)
Va, a tal fine, osservato che, dopo l’iniziale interpretazione restrittiva dell’art. 2050 c.c., tale norma è stata dalla giurisprudenza oggetto di interpretazione estensiva, per cui si può dirsi rientrare nel diritto vivente un’interpretazione giurisprudenziale che ha esteso il giudizio di pericolosità ex art. 2050 c.c. anche al bene finale dell’attività produttiva, sempre che tale bene ne abbia conservato la potenzialità lesiva nei confronti dei consumatori utenti.
(…)
La pretesa conoscenza del rischio e della pericolosità del prodotto-sigaretta da parte del consumatore-fumatore (pur potendo portare al rigetto della domanda risarcitoria) non è idonea ad escludere la configurabilità della responsabilità del produttore ai sensi dell’art. 2050 c.c.. Tale norma prescinde dal comportamento del soggetto danneggiato e la fattispecie si perfeziona sulla base del solo esercizio dall’attività pericolosa senza l’adozione delle misure idonee ad evitare il danno.
(…)
Così argomentando la società finisce con il pretendere la dimostrazione del dolo, ossia della volontà del comportamento diretto ad ingannare;laddove invece, è sufficiente presupposto risarcitorio la dimostrazione della colposa diffusione di un messaggio prevedibilmente idoneo ad insinuare nel consumatore il falso convincimento intorno alle caratteristiche ed agli effetti del prodotto.
(…)
Nella fattispecie il danno da pubblicità ingannevole (salvo che non si risolva in un danno alla salute da accertarsi nei termini suddetti) ha come referente costituzionale più prossimo solo l’art. 41 Cost., il quale garantisce la libertà dell’iniziativa economica privata e l’autodeterminazione delle scelte in materia. Tale norma, tuttavia, appartiene alla sfera dei rapporti economici e non dei diritti inviolabili della persona, con la conseguenza che l’evento lesivo, che attinge la posizione tutelata dall’art. 41 Cost., non può dar luogo, in assenza di una specifica norma, a danno non patrimoniale.