Occhio alle promesse che non si possono mantenere. Il padre esce dalla società e nel cedere le sue quote promette all’acquirente che farà dimettere da una società partecipata la figlia, che non è licenziabile perché si è appena sposata.
La figlia prima obbedisce, ma poi fa valere la nullità delle dimissioni in quanto non confermate davanti all’ufficio del lavoro. Risultato: la società datrice è condannata a pagare le retribuzioni dalla data delle dimissioni. Né l’azienda né l’acquirente possono però rivalersi sul padre ex articolo 1381 Cc: è vero, la promessa del fatto del terzo (vale a dire che anche la figlia uscisse dal gruppo) non si è avverata, ma la mancata verificazione non ha conseguenze risarcitorie. Come mai? La promessa scaturisce da una clausola contrattuale nulla, perché apposta per aggirare le norme imperative che, per evitare discriminazioni, vietano il licenziamento delle donne nel periodo a cavallo del matrimonio. È quanto emerge dalla sentenza 16305/09, emessa dalla prima sezione civile della Cassazione (e qui leggibile come documento correlato).
Diritti fondamentali. Bocciata la sentenza di merito che dispose a carico del venditore delle quote sociali un risarcimento di oltre 56 mila euro in favore dell’azienda dopo l’annullamento delle dimissioni della figlia (mentre ogni responsabilità era stata esclusa nel lodo arbitrale scattato in forza di una clausola compromissoria “azionata” dalla società e dall’acquirente delle partecipazioni). Ora la Suprema corte decide nel merito rigettando le domande presentate in appello con l’impugnazione del lodo arbitrale.
È nullo – ricordano gli “ermellini” – il licenziamento della lavoratrice per causa di matrimonio. E nel periodo che va dal giorno della richiesta delle pubblicazioni fino a un anno dopo la celebrazione dello sposalizio sono nulle anche le dimissioni volontarie, a meno che non siano confermate di fronte all’ufficio del lavoro: l’articolo 1 della legge 7/1963 (oggi articolo 35 del D.Lgs 198/06) contiene norme imperative poste a tutela delle donne in osservanza di principi costituzionali (Cassazione 4144/84).
Responsabilità esclusa. Nel contratto di compravendita delle quote sociali, dove il padre-cedente prometteva all’acquirente l’uscita dal gruppo anche di sua figlia, le parti hanno tentato di conseguire attraverso le dimissioni volontarie quanto era vietato ottenere attraverso il licenziamento: la clausola, dunque, è nulla perché riguarda una prestazione proibita dalla legge. E tanta basta per cassare la sentenza d’appello: la nullità della clausola posta a fondamento delle domande di risarcimento dell’azienda e dell’acquirente delle quote sociali comporta l’inesistenza di un titolo di responsabilità per chi, come il padre-cedente, ha promesso il fatto del terzo che poi non si è compiuto (cfr. in materia Cassazione 13105/04; 19472/03; 2856/06; 1137/03). (d.f.)