E’ apparsa recentemente sui media la notizia della denuncia penale e dell’esposto (rivolto a vari organi destinatari) presentati da due genitori bolognesi, miei assistiti, in merito alla dolorosa vicenda della loro figlioletta di undici anni.
Falso ideologico, falso materiale e abuso d’ufficio sono le malefatte a rilevanza penale che i due genitori contestano ad uno dei giudici del Tribunale per i minorenni, per avere questi violato le regole del processo, sostituendo alla decisione assunta collegialmente in Camera di Consiglio e già sottoscritta dal giudice relatore (dr. Morcavallo) una decisione diversa, e recante la sola firma del giudice denunciato.
Decidere, insieme ai propri assistiti, un’iniziativa così risoluta (‘maschia’ direbbe il mio maestro, Paolo Cendon) non è certo facile, date le implicazioni che questo comporta sotto vari profili, primo fra tutti il rischio che tale gesto (comunque pienamente legittimo, se rivolto nei confronti di un comune cittadino) possa venire inteso come atto di boriosa insofferenza.
Ma non è così. Quello di William e Mirna è un grido di dolore, una richiesta estrema di aiuto, nella speranza di una giustizia giusta: li ho incontrati innumerevoli volte, in tutti questi anni, e nonostante tutto, continuano a sperare e a credere che qualcuno possa fare luce e mettere le cose a posto.
Ma è stata una decisione difficile e sofferta. All’inizio un’idea vaga che si affacciava, e che subito dopo veniva allontanata: troppo difficile, improbabile che le irregolarità vengano a galla, inutile. Ecco, era soprattutto il senso di inutilità che faceva da freno, il pensiero che tutto poi si sarebbe potuto ritorcere contro in modo ancora più avvilente.
Eppure, i riscontri non mancavano: elementi raccolti da talune annotazioni contenute nel fascicolo, corrispondenze concrete, fattuali, documentali, e la dichiarazione scritta del giudice relatore che spiegava come pure a lui i conti non tornassero; un alito fresco che infondeva coraggio in quel torrido mese di agosto.
Ma no, non poteva essere ciò che risultava, ciò che si temeva; bisognava capire, chiedere chiarimenti. Del resto – mi ripetevo – un magistrato della Repubblica avrà improntato tutta la propria vita ad un’ideale alto di giustizia; con la G maiuscola appunto. In fondo, siamo dalla stessa parte; seppure con ruoli diversi, siamo qui per realizzare l’interesse di una bambina. Del resto, poteva anche trattarsi di un grosso equivoco, oppure di un brutto errore, dato che anche il giudice può sbagliare (come ama dire il presidente del tribunale per i Minorenni di Bologna).
E poi, bisognava cercare risposte prima di denunciare.
Le risposte ? Poche parole sbrigative e pilatesche: due righe, di volta in volta, scritte di pugno a margine delle istanze per liquidare il problema sorvolando gommosamente sulla questione.
Dopodichè,
– ho incontrato lo sguardo addolorato e supplichevole dei miei assistiti,
– ho pensato a quella piccina lontana dai propri genitori da così tanto tempo e senza alcuna valida ragione che lo giustifichi,
– ho ripercorso i cinque anni fin qui trascorsi: incontri con mamma e papà una volta al mese, per un’ora (un’ora e mezzo da qualche tempo a questa parte), sotto lo sguardo vigile di un supervisore,
– ho riletto il decreto che per la prima volta, nel maggio 2009 (a tre anni dall’allontanamento) apriva uno spiraglio, prescrivendo ai servizi sociali di ampliare gradualmente gli incontri,
– mi sono apparsi i volti degli operatori che quel decreto non hanno mai attuato,
– ho rivisto l’ultima fase istruttoria davanti al bravo giudice Morcavallo, e i momenti a seguire della trepidante attesa di una decisione finalmente giusta, ma poi ho letto con un dolore acuto nell’anima la motivazione e il dispositivo dell’ultimo decreto (quello che ha dato origine agli esposti),
– ho ricordato il mio giuramento: “Giuro di adempiere ai miei doveri professionali con lealtà, onore e diligenza, per i fini della giustizia e per gli interessi superiori della nazione”,
– ho pensato, non ho dormito, mi sono riletta questo passo di Platone:
Zeus ordinò ad Ermes di inviare agli uomini Pudore e Giustizia, come principi regolatori del vivere insieme. Ermes domandò a Zeus se dovesse infondere tali sentimenti in tutti gli uomini o solo in taluni come per esempio per l’arte medica, dove la capacità di guarire è sufficiente che venga posseduta da qualcuno per il bene di molti. “In tutti” sentenziò Zeus. Non vi sarebbero, infatti, città se partecipassero di questo sentimento pochi cittadini. Imponi, anzi, come mia volontà la legge per cui chi non ha parte al pudore e alla giustizia sia messo a morte come peste della città