Oggi parliamo di collocazione dei figli secondo il principio di bigenitorialità.
Quando i genitori si separano i figli minorenni devono rimanere a vivere con la mamma o con il papà?
E’ questa la questione che oggi impegna la maggioranza dei contenziosi separativi. Perché? La legge non è chiara sul punto?
La legge non dice affatto che i figli minorenni devono rimanere a vivere con uno dei genitori, ma stabilisce il diritto dei figli di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi. Dunque, non c’è nè deve essere creato un genitore di serie A o ‘prevalente’ come suol dirsi, e dunque il giudice non dovrebbe disporre proprio nulla sulla collocazione dei figli.
E come si realizza questo obiettivo?
Spetta al giudice – sempre secondo quanto prevede la legge – stabilire quando e come ciascun genitore terrà i bambini con sè.
Come ho osservato altre volte, la collocazione è un istituto inventato dai giudici (ma anche noi avvocati abbiamo le nostre colpe!) per mantenere invariato il sistema anteriore alla riforma del 2006: si affidano i figli in via condivisa, e al contempo si collocano presso un genitore, il quale di fatto diventa, per effetto della collocazione predetta, il genitore prevalente.
Inoltre, nonostante tutte le critiche che da oltre dieci anni si vanno facendo contro questo sistema della collocazione dei figli minori, nel 2016 una sentenza della Cassazione ha dato il colpo di grazia, affermando che i bambini vanno di preferenza collocati presso la mamma.
Eppure, e per fortuna, non tutti i giudici la pensano così.
Un caso recente di collocazione dei figli secondo il principio di bigenitorialità
Recentemente, proprio la nostra Corte d’Appello ha dato prova di sapere decidere “di testa propria”, o, meglio, nel rispetto delle regole di legge; ed ha riaffermato con forza che il criterio di giudizio è quello affermato dall’art. 337 ter c.c. per il quale il figlio minore ha diritto di mantenere un rapporto equilibrato e sereno con entrambi i genitori e con i parenti dei due rami genitoriali.
Vediamo il caso giunto all’attenzione della Corte bolognese.
Il giudice della separazione aveva affidato la bambina ad entrambi i genitori, fissandone la residenza con la madre presso l’abitazione familiare. Si trattava dell’abitazione in cui la bambina era cresciuta e dove aveva sempre vissuto, fatta eccezione per un anno trascorso a Milano, a causa del terremoto che aveva colpito l’Emilia.
La madre, tuttavia, chiedeva autorizzazione a trasferirsi a Milano, con la bambina, per ragioni di lavoro.
Il marito si opponeva a tale richiesta, che in effetti non veniva accolta dal giudice di primo grado.
La donna pertanto riproponeva la domanda alla Corte d’Appello, ma la Corte negava detta autorizzazione. Vediamo per quali motivi:
- era pacifico tra i due genitori che la bambina era nata e cresciuta in quella casa e in quel paese;
- la bambina aveva dichiarato ai Servizi Sociali che voleva “passare più tempo con il papà” e le sue dichiarazioni erano da considerarsi autentiche;
- l’anno trascorso a Milano aveva rappresentato una semplice parentesi nella vita della piccola, causata da un evento traumatico;
- la madre aveva prospettato che l’impossibilità di trasferirsi le avrebbe causato affaticamento nel lungo periodo;
- la bambina frequentava la penultima classe delle scuola elementare il cui ciclo si sarebbe dunque chiuso dopo un anno; essendo ancora in età infantile, assumeva rilevanza il fattore relazionale;
- le difficoltà della gestione quotidiana della bambina potevano essere adeguatamente supplite dal padre con anche l’aiuto dei nonni paterni, peraltro molto più giovani di quelli materni;
- la presenza dei genitori nel medesimo contesto ambientale poteva meglio assicurare alla bambina un rapporto equilibrato con entrambi, mentre il trasferimento a Milano avrebbe comportato maggiori oneri logistici e di tempo per le trasferte del padre.
Dall’esame attento e scrupoloso di tutti i descritti elementi, la Corte bolognese traeva la conclusione che non vi fossero ragioni per autorizzare il richiesto trasferimento della madre con la bambina e rigettava conseguentemente l’appello da questa proposto; facendo salva, beninteso, la possibilità di una determinazione diversa in un momento futuro in cui le scelte educative della minore avessero giustificato un cambiamento.
Questa decisione costituisce un esempio istruttivo di come il giudice dovrebbe procedere ai fini della decisione relativa al luogo di vita dei figli minori: non assumendo un aprioristico criterio preferenziale (quale quello della maternal preference) che nessuna legge ha mai codificato; ma considerando tutte le pieghe del caso concreto, e ricercando la soluzione più appropriata per garantire al bambino la vicinanza di entrambi i genitori. Proprio come prescrive l’art. 337 ter c.c.