Novità sull’assegno di divorzio.
Si potrà essere d’accordo (e lo saranno tanti ex mariti) o non essere d’accordo (e lo saranno tante ex mogli) con la recentissima sentenza della Cassazione che ha modificato i requisiti di accesso all’assegno di divorzio, ma una cosa è certa: la sentenza è cristallina nell’enunciare che se il coniuge che richiede l’assegno è economicamente indipendente o è effettivamente in grado di esserlo, l’assegno non gli spetta.
E non c’è dubbio che questo revirement che ha tutte le carte in regola per passare alla storia del diritto di famiglia determinerà una serie di conseguenze; e orienterà, inevitabilmente, anche le scelte difensive dei coniugi separati e divorziati, prima fra tutte la corsa al divorzio da parte dei coniugi che stanno corrispondendo l’assegno di separazione, il quale rimane ancorato ai criteri tradizionali.
Autoresponsabilità economica
La svolta, tuttavia, era già nell’aria, sia per il precedente del Tribunale di Bari del 21.3.2017, sia per le indicazioni provenienti dal fronte europeo.
Il cambio di rotta poggia essenzialmente sul concetto di “autoresponsabilità economica“, principio che trova qui la sua consacrazione ufficiale e sulla equiparazione tra la condizione dell’ex coniuge richiedente l’assegno divorzile e quella del figlio maggiorenne.
In pratica, la Cassazione prende a prestito una norma del codice civile dedicata al mantenimento dei figli maggiorenni non economicamente autonomi, esattamente quella che dispone che il giudice può stabilire un assegno per il mantenimento del figlio che non sia autosufficiente economicamente. A contrario, questa norma esclude che il figlio maggiorenne economicamente autonomo abbia diritto a detto assegno.
L’ex coniuge è come il figlio maggiorenne
La S.C. ritiene che questa disposizione sia applicabile anche tra ex coniugi, per analogia di situazioni, “trattandosi in entrambi i casi, mutatis mutandis, di prestazioni economiche regolate nell’ambito del diritto di famiglia e dei relativi rapporti”.
Viene così accantonato, di fatto, l’articolo 5 della l. divorzio dedicato specificamente all’assegno divorzile e viene assunta a norma regolatrice la disposizione relativa ai figli ( operazione un po’ forzata, a dire il vero, visto e considerato che l’applicazione analogica sarebbe consentita qualora mancasse una norma che regola l’assegno di divorzio)!
Resta il fatto che la sentenza si sofferma ampiamente su questa equiparazione, mettendo così sullo stesso piano condizioni e percorsi di vita che differiscono sotto vari profili.
Dice, dunque, la Cassazione: il figlio maggiorenne, nel momento in cui raggiunge l’indipendenza economica, perde il diritto ad essere mantenuto dai genitori, e ciò nonostante egli resti figlio per sempre; a maggior ragione, lo stesso deve valere per il coniuge che non è più tale.
Viene fatto l’esempio del figlio ultraquarantenne che rifiuti di lavorare pretendendo di continuare ad essere mantenuto dai genitori, citando una decisione del 2014 che in un caso siffatto ha escluso il diritto del figlio di continuare a percepire l’assegno.
La situazione di quel figlio – osserva la S.C. – “non è tutelabile perchè contrastante con il principio di autoresponsabilità” e aggiunge: “Tale principio di “autoresponsabilità vale certamente anche per l’istituto del divorzio” che è una scelta definitiva di libertà della persona, talchè con il divorzio, entrambi i coniugi ne accettano le conseguenze economiche (ciò è vero in realtà solo nei casi in cui entrambi vogliano divorziare).
Non più posizioni parassitarie sull’assegno di divorzio
Ben venga, allora, il principio di autoresponsabilità per tutti quei casi (e sono molti) in cui vi sia l’evidenza di un approfittamento parassitario del coniuge che percepisce l’assegno.
Ma, l’equiparazione tra figlio maggiorenne ed ex coniuge appare, francamente, un po’ forzata.
I genitori mantengono il figlio e lo assistono materialmente e moralmente al fine di renderlo una persona autonoma, che progressivamente diverrà indipendente dalla famiglia, attraverso scelte formative rese possibili dall’apporto genitoriale.
Diversamente, per l’ex coniuge, la necessità di ricevere un supporto economico dall’altro potrebbe e spesso è determinato da rinunce effettuate durante la vita matrimoniale per dedicarsi ai figli e favorire in tal modo la carriera lavorativa dell’altro.
In casi del genere il principio di autoresponsabilità economica ha già trovato applicazione spontanea da parte del coniuge che ha rinunciato alla propria realizzazione personale e alla propria conseguente autonomia reddituale.
Si pensi alla moglie dell’imprenditore facoltoso, che ha allevato i figli nati dal matrimonio, rinunciando a tal fine al lavoro che svolgeva, e che, dopo il divorzio trovi un posto di lavoro – per esempio come segretaria di uno studio professionale – percependo uno stipendio di 1.000,00-1.500,00 euro al mese. Quella donna, secondo i nuovi criteri, non avrà dunque diritto all’assegno divorzile con i ben immaginabili riflessi sul suo tenore di vita e – non va affatto escluso – sui rapporti con i figli i quali si troveranno ad avere un genitore ricco e l’altro povero, un genitore in gamba e l’altro “sf…ato”.
Lo so, non tutti i casi sono così e ho ben presenti le rendite parassitarie. Ma, mi chiedo se i giudici del Palazzaccio si siano soffermati a riflettere su questi risvolti.
Il diritto di famiglia è fatto di mille sfaccettature, situazioni eterogenee non contenibili tutte all’interno di griglie rigide.
Il criterio dell’art. 5 l. divorzio, nel riferirsi a quel “tenore di vita” che l’ex coniuge dovrebbe poter mantenere ma che di fatto non esiste più fin dalla separazione, genera evidentemente incertezze. D’altra parte, il criterio introdotto oggi dalla Cassazione che suona “niente assegno se c’è un reddito, qualunque esso sia” rischia di non consentire una decisione ritagliata a misura del caso concreto con possibili effetti negativi per la stessa dignità dell’avente diritto.
Dopo il divorzio si torna single
C’è un altro profilo della sentenza che non convince; quello in cui si afferma che il diritto all’assegno di divorzio, nel momento in cui è riconosciuto, viene attribuito ad una “persona singola“, dato che il rapporto matrimoniale viene meno.
È la prima volta, a quanto mi consta, che il coniuge divorziato viene equiparato ad una persona single.
La Cassazione ripete più volte questa espressione, pur opportunamente virgolettandola, ma l’utilizzo delle virgolette non elimina l’impressione che si sia inteso effettivamente equiparare le due posizioni, con l’accantonamento dello status di coniuge divorziato e del percorso esistenziale e relazionale che l’ha preceduto.
Una decisione apprezzabile negli intenti, dunque, ma forse eccessivamente vigorosa, che ha usato l’accetta, laddove sarebbe servita una forbice da sarto.
Ricordo ad esempio che le stesse linee guida europee suggeriscono di attribuire il mantenimento per un periodo di tempo limitato, con la possibilità di attribuirlo, seppure eccezionalmente, anche senza limiti temporali.